‘Mille splendidi soli’, quando la lettura segna.

‘Mille splendidi soli’ è un altro viaggio, dopo ‘Il cacciatore di aquiloni’ Hosseini mi ha riportata in un mondo fatto di emozioni devastanti.

Un Afghanistan crudo, straziante pervaso da una indomita speranza. Un libro dolorosamente meraviglioso. 

L’autore ci racconta la storia di due donne che hanno diviso una vita e molto altro. Due donne profondamente diverse con un destino tristemente tracciato.

Anni drammatici che noi, lontani da quella realtà, abbiamo conosciuto dalla fredda narrazione dei telegiornali, violenza disumana che restava (e resta tuttora) sugli schermi per qualche minuto, il tempo di sconcertare, poi si cambia canale e ciao. 

Hosseini ha la capacità di dettagliare soprusi e mancanze umane con una delicatezza incredibile. 

Miriam e Laila sono fiori preziosi a cui sono stati strappati i petali, uno a uno, con movimenti arrabbiati, ruvidi, apparentemente inenarrabili. Loro due, anime innocenti, occupano queste pagine con la pienezza di una poesia.

Un libro che lascia tanto, un libro che non mi ha permesso di prendere fiato, come quando sai che stai ricevendo un dono prezioso fatto di parole sussurrate. Un libro che riporta alla dannata consapevolezza che le donne vengono ancora viste, in determinate culture, come esseri inferiori. Come se la guerra non bastasse.

Donne massacrate, spezzate, nascoste. La cosa che più colpisce è che nulla è passato. Tutto è maledettamente attuale. 

400 pagine di altalena tra rabbia, compassione, paura e tanta speranza. 

Le nostre protagoniste hanno uno spessore che scavalca le pagine e colpisce, un morso allo stomaco. Ho ammirato il coraggio di coloro a cui è stato tolto tutto e con il niente hanno vissuto una vita degna e profonda. 

Ci sono sfaccettature e riflessioni che vanno oltre il raccontato, che toccano corde delicate che fanno decisamente male. 

Vi ho lasciato qui poche parole, lo so, imperdonabile, ma credetemi, questo libro è qualcosa da interiorizzare.

Un libro che si legge con il cuore.

E voi, quanta voglia avete di sperare?

‘Il paziente’, quando la vita non è più tua.

Il paziente di Juan Gómez-Jurado è un libro da cui mi aspettavo adrenalina e tensione, ho avuto scosse a tratti e qualche momento di passeggiata nel bosco.

L’inizio è lento, ho faticato a ingranare, e devo ammettere che le marce non sono state così sprintose nemmeno proseguendo, se non sul finale, un giro da pole position. 

Non vorrei essere fraintesa, è molto ben scritto e fila ma fila in un modo un po’ artificioso e surreale, che ci sta anche, data la trama, ma che allontana il lettore, o forse solo me.

Il nostro neurochirurgo, che non è Derek (scusate non ho resistito), ha un’etica profonda che, in un attimo, si disintegra. Quando ti tolgono ciò a cui tieni di più sei disposto a tutto e le prospettive cambiano, radicalmente. 

E fin qui tutto torna.

I personaggi non mi sono arrivati granché, ahimè, nemmeno quelli che avrebbero dovuto, nella mia immaginazione, squarciarmi il cuore.

I servizi segreti mi sono apparsi meno segreti del previsto, gli avvenimenti sono arrivati sulle pagine un po’ troppo telefonati.

Insomma non ciò che pensavo mi avrebbe fatto palpitare ma in ogni caso un thriller piacevole e strutturato. Forse troppo narrato e con un filotto di similitudini che tanto rendono quanto appiattiscono. 

Una storia di testa e cuore, dove la testa litiga con tutto ciò che il cuore urla.

Dove bene e male si fondono, permeando anime elette macchiate di pece. 

Un libro che ho letto a singhiozzo stante l’adrenalina intermittente. 

Una storia che è stata una passeggiata nel bosco in silenzio ad ascoltare l’ingranaggio del mio cervello che razionalizzava troppo per godere del momento. 

Il finale però vale la lettura. Peccato non aver avuto questa sferzata di energia qualche centinaio di pagine prima.

Un thriller per chi ha voglia di qualcosa di pensato che non rapisce ma accompagna. 

E voi? Quanta voglia avete di vedere come è facile tenere in mano la vita di qualcuno?

Trama: super 5 stelle.

Personaggi: lontani lontani 2 stelle e 1/2.

Ansia: altalenante 3 stelle.

Scrittura: godibile 4 stelle e 1/2.

Finale: il libro è lì, 5 stelle.

‘The Diplomat’, qualcosa da guardare.

Sarà che ho la diplomazia di Terminator, che basta uno sguardo e si capisce che ti odio, sarà che mi passano i vaffanculo sulla fronte che nemmeno i neon di Times Square, sarà che lei la trovo bellissima e imperfetta, totalmente umana, sarà quel che sarà The Diplomat, serie Netflix, alle prime battute mi ha conquistata.

La diplomazia non è a senso unico. O forse sì:)

Lei per me è quella bionda del video Always di Bon Jovi e resterà ‘lei’ in eterno.

Ma volto pagina e dico che Keri Russell la trovo davvero magnifica in questo ruolo. Incurante di quei capelli sempre disordinati, che poi sta da Dio, odia le persone, ha più palle di un locale di bowling e sa quello che dice. E in tutto ciò il suo essere è pervaso da paure, insicurezze e determinazione. Che farcela, o provare a farcela, non è per chi ha tutte le risposte ma per chi si fa tante domande.

La storia è interessante, quella tensione che ti lascia sul finale, tra la fine di una puntata e la successiva. Non l’ho finito, no, ma so che mi piace e quindi lo dico, il blog è mio e faccio un po’ come mi pare. 🙂

Sì, sto anche leggendo e a breve arriverà la recensione del thriller che mi sta facendo compagnia tra le millemila e più cose che occupano la mia testa al momento.

Ma qui siamo ad altro, The Diplomat ha questo ritmo che mi solletica, questi dialoghi serrati, questo casino ‘politico’ sempre attuale che mi fa capire che no, io e la diplomazia non siamo parenti.

E poi adoro tutto, dagli abiti, sobri che più sobri non si può, alla formalità che nei momenti opportuni diventa caos puro. Non è una serie da wow è una serie che sa di qualcosa di meno patinato e più concreto. Credo mi abbia preso per questo.

Insomma un prodotto che ha qualcosa di intrigante e una donna che non è la solita noiosa gnegnegne tutta tacchi e trucchi.

Ok, la smetto, che ho qualcosa da guardare, qualcosa da leggere e qualcosa a cui pensare.

Alla prossima puntata:)

Hip hip ultrà.

Vivo con Holly e Benji, e detto così è tutto un programma. Non quello di Italia1, che mi teneva incollata alla tv con in mano un panino cosparso di nutella mentre finivo i compiti. Ma questa è un’altra storia.

Le partite per fortuna non durano 15 giorni e il campo, anche se a volte presenta insidie, è piatto e non ellittico. Ma sono dettagli.

Ogni tanto per qualcuno, un qualcuno che spesso è fuori dal campo, è più una puntata di Lady Oscar, con sospetti e macchinazioni, che il complottista è sempre in agguato.

Holly e Benji che vivono tra tacchetti e guanti da portiere, che ho scoperto mio malgrado sanno farsi sentire con note di eau di bleah.

Che poi dipende dalla marca, Benji ne ha provate un po’, degno seguace di Gigio è stato fedele alla causa per un po’ ora è passato alla “virgola” che sa di vittoria e che non ho idea di quanto durerà. Ma devo dire che i colori sono sempre spettacolari.

Loro che vivono tra scaldini per gli allenamenti sotto la neve e bottigliette d’acqua gelata per i tornei estivi.

Che il calcio è di chi lo pratica e di chi lo guarda. E chi lo guarda spesso non capisce niente. E sì, sto andando a parare lì.

Io che a 10 anni ero in una squadra femminile e che capisco più di fuorigioco che di fondotinta.

Certo che da genitore è una bella palestra di pazienza.

E non parlo delle partite, degli allenamenti, delle trasferte, dei parcheggi in culo ai lupi, delle giornate passate sotto l’acqua in campi impantanati (ok, questo fa tanto amarcord, oggi, per la loro categoria, sono quasi tutti in sintetico e non ci si sporca nemmeno volendo), no, non parlo dei viaggi, del tempo e del cuore, parlo del pubblico.

Il pubblico dei ragazzini è fatto di parenti. E qui inizia il problema.

C’è il taciturno isolato nel suo mondo, in cui mi rivedo parecchio, quello che vive la partita e si tiene tutto dentro perché se dicesse la propria sarebbero madonne, e non per i ragazzini in campo ma per l’udito troppo sviluppato che gli permette di sentire i commenti di tutti i ct in tribuna. Trapattoni e lo strunz imperversano.

C’è chi fa un capannello, parlano di cose che esulano dal calcio, dal campo, dal pianeta terra. Non vedono i gol, non sanno il risultato, fanno presenza, folclore, fastidio.

C’è chi ne sa più dell’allenatore, del massaggiatore, del capo della Nasa, sa persino chi ha ucciso JFK e ci tiene a dirlo a tutti quelli che sono nel raggio di 15 km.

C’è chi guarda e tace anche se in mezzo alla gente, che incita con discrezione e tanto rispetto. Che fa il suo dal suo posto, che sorride e che in quelle gambette che corrono in campo vede solo tanta voglia di divertirsi.

Vi siete mai chiesti il perché di quei cartelli nei campi da calcio? Quelli che raccomandano ai genitori di fare i genitori? Ci sono per un motivo. Un motivo grande e grosso.

Ci sono perché esiste chi il limite lo supera, chi non si controlla, chi crede di aver generato il nuovo CR7 mentre gli altri non li vede degni di raccattare palle a fondo campo.

Il cartello non cambia gli animi, non li mitiga, non li annulla ma fa riflettere chi ha voglia di riflettere. I mister fanno i mister e spesso sono ragazzini sottopagati che si prendono responsabilità immani. A volte, nelle società di un certo tipo, ci sono scale gerarchiche, allenamenti mirati, diete da seguire, codici di comportamento, diktat e sanzioni.

A volte non è un gioco.

E non lo è nemmeno sugli spalti.  

Eppure loro, quelli che in campo ci vanno davvero, sono ragazzinə con tutti i sensi attivi che l’uomo da sei milioni di dollari e la donna bionica (sono vecchia anche per i rimandi alle serie tv) a confronto erano principianti.

Quindi, come il taciturno succitato, lo sentono il genitore balordo che impreca come sentono quello che sbuffa. E li sento anche io che la pazienza l’ho persa quando sono nata. E infatti là taccio qui meno.

Ebbene sì, sto a distanza da tuttə con la consapevolezza che lo sport unisce chi ha qualcosa da dare e allontana i coglioni.

La mia vena polemica deve essere l’arteria femorale, se parte è finita.

Come quando non si sa.

Non inizierò con la solita storia del “se non hai figli non puoi capire” perché penso sia una cagata pazzesca per certi versi, una sacrosanta verità per altri.

Credo che se sei stupido resterai stupido con o senza figli; se manchi di sensibilità ed empatia meglio un peluche.

Credo che diventare genitori sia una grande fortuna, esserlo una specie di magia.

E puoi esserlo senza diventarlo.

Uguali eppure diversi (e ora molto più grandi di così)

Credo, forse più fanciullescamente spero, che un figlio sia un qualcosa che arricchisce, non completa.

Che se sei “monco” un figlio ti dilania non ti aggiusta.

Che devi essere pieno, non cercare di riempirti.

Altrimenti, come sopra, ci sono tantissimi peluche in cerca di affetto, finto.

Quindi niente “non puoi capire” ma un bel po’ di “che cavolo stai dicendo Willis?”

Perché vorrei sapere come sia possibile essere sempre circondati da gente incapace di accudire un pesce rosso in grado però di dispensare consigli su una prole a cui sono così lontani che nemmeno il Mesozoico.

Eppure parlano, oh se parlano.

Come li devi allattare, e non lo so nemmeno io che due gemelli li ho e li ho nutriti con SanMellin; come e quando devono iniziare a parlare e mi raccomando la sintassi che nemmeno Severgnini loro che invece gesticolano come un T-Rex; per non parlare di quando ti fanno la morale su rispetto, castighi e rimproveri, loro che Sgarbi a confronto è il Mahatma.

A che età vanno fatti, con chi e, se fosse per loro, anche in che posizione, che i chakra non solo li aprono li sfracellano anche.

Una sorta di tuttologi del sapere genitoriale loro che un figlio lo fanno per cementare un rapporto logoro o semplicemente perché “si fa così”.

Che quelli che più ti giudicano come genitore, oltre a i tuttologi con un master in cagacazzismo, sono quelli che genitori lo diventano senza volerlo.

E tu sbagli strada, metodo, omogeneizzato.

Sei troppo vecchio, troppo giovane, troppo amico, troppo padre madre nonno e zia. Troppo tutto o troppo niente. In ogni caso sai fare il tuo come Achille il diplomatico.

Come se ci fosse un copione da rispettare, come se la vita fosse lineare, come se tu fossi come me.

Quindi no, non sono della scuola “se non hai figli non puoi capire” sono della scuola di quelli che si fanno in quattro per fare tutto, che si alzano all’alba, che cercando di stare dietro a quello che c’è da fare, che girano come trottole, che i figli li hanno e se li curano, che dormono quando muoiono.

Eppure oh, quello che ha la metà dei tuoi anni, vive accudito e riverito, ha come pensiero del mese, anno, esistenza l’abbinamento smalto o l’aperitivo trendy che ti dice come crescere i tuoi figli esiste e lo conosci.

E hai tanta voglia di spararlo a fanculo che a confronto la Cristoforetti è dietro l’angolo.

Ah, altra banalità ma che reputo necessario ribadire: non si chiede perché non si hanno figli a chi non li ha come non si cerca di insegnare in modo saccente a chi li ha come crescerli. Stessa faccia della stessa medaglia: IMPARARE A FARSI I FATTI PROPRI. Che la vita è così complessa e variegata che quello che vale per te non vale per me.

Quindi dite quello che volete a chi volete ma una premura ve la consiglio: azionate il cervello con la stessa costanza con cui pubblicate storie su ig.

Non risolve ma aiuta (cit.).

R.S.V.P. ma anche no.

Mettetevi comodi, ho intenzione di parlare di un argomento che affligge le “genti”.

Le feste a tema.

Che già il nome TEMA, sa di esame, voto, scuola, ansia, competizione, schifo.

Troppo tranchant? Non avete ancora letto niente.

Come quando qualcosa stona…

Le feste a tema sono il male, non solo perché a me fanno venire voglia di disertare l’evento che nemmeno Woody Allen alla cerimonia degli Oscar, ma perché chi sei per decidere tu come mi devo vestire io?

Ho già conflitti interiori quotidiani con tutti i miei io davanti all’armadio la mattina presto. Lotte intestine per decidere se questo o quello e tu, tu che spesso non sai chi sono se non per quello che scelgo di farti vedere, decidi che quel dato giorno, alla data ora, indosserò uno spolverino perché da ragazzo Lorenzo Lamas era il tuo spirito guida.

Che poi è così, le feste a tema hanno sempre dei temi imbarazzanti.

Senti come suona bene: tema eleganza, che alla fine ti vesti come ti pare, che il concetto di eleganza è grossomodo univoco anche se con sfaccettature che possono prendere chine pericolose ma almeno hai libero arbitrio.

Invece no: country, che buttero faceva meno scena e bella campagnola pareva troppo da vispa Teresa; o anni ’80, che spesso lo sceglie chi non li ha vissuti quegli anni, che se li avessi davvero vissuti cercheresti di dimenticarli, non di festeggiarli. Accostamenti improponibili che hanno segnato l’adolescenza della scrivente tanto che Linda Blair non mi fa paura quanto un bomber.

Total white, di solito per le feste in spiaggia che se, come me, resti in modalità Casper 365 giorni all’anno significa sparire e fare effetto muro.

Anni ’20, che detto così suona fascinoso, fino a quando non comprendi che l’acconciatura, fatta di onde piatte, è come cimentarsi con una scultura marmorea.  

Harry Potter che fa tanto carnevale, un giorno affronterò l’argomento ma non ora che tanto l’odio traspare anche così.

Party ricercati con piatti che hanno fatto epoca, musiche e allestimenti degni di Cleopatra e che, in effetti, ti fanno venire voglia di avere una serpe in seno.

Quindi l’entusiasmo per l’invito tanto agognato nel momento in cui comprendi che ti porterà a partecipare a qualcosa con un tema diventa insofferenza all’ennesima potenza.

Che devi capire cosa hai già, cosa puoi riciclare, cosa devi acquistare, come potrai svicolare.

La ricerca dell’accessorio perfetto che nemmeno Mata Hari.

Roba che ti resterà nell’armadio come perenne memoria di quanto tu ti sia resa ridicola.

Poi magari ti diverti.

Poi.

Magari.

Ti diverti.

Insomma le feste a tema sono e restano, per me, un dito in un occhio, un mattoncino lego sotto un piede, uno spigolo vivo contro il mignolo. Ma io, si sa, sono polemica per dna.

Forse, più semplicemente, non sono da feste che il mio essere asociale ruggisce forte, forse non sono da tema, (no dai non ci crede nessuno, io che scrivo anche quando dormo), forse solo mi piace decidere per me. E questo è assodato.

Quindi “genti” che sia chiaro, se date una festa a tema non aspettatemi. Passo, non da voi, ma passo.

Pagelle di stile.

Oggi ho voglia di qualcosa di diverso, dopo tanti libri, serie Tv, elucubrazioni sulla vita, sulla morte, sul mandare tutti a fanculo, oggi ho deciso di allietare la vostra lettura con un argomento frivolo e attuale: le pagelle degli outfits dei red carpet.

E no, non mi metterò a farle anch’io, ne ho lette talmente tante che ho deciso di commentare i commenti.

Premetto di essere stronza, caustica, un filo bastarda, ma se hai la classe di un bobtail che tu ti erga a padrona di stile (sono quasi sempre donne, gli stilisti quasi sempre uomini, quelle affossate quasi sempre donne, ci sarà un nesso chi lo sa, sappiamo di sì ma è politically incorrect dirlo) non mi convince.

Non parlo di bellezza eh, sia chiaro, quella per me resta estremamente soggettiva, parlo proprio di stile, di allure, charme, quello invece, ai miei occhi miopi, astigmatici e leggermente strabici, è oggettivo.

Capirete da soli, letto quanto sopra, i limiti strutturali con cui mi confronto ogni giorno.

Le pagelle le hanno date tutte, testate giornalistiche, fashion addicted, blogger, vicine di casa, scrivania, chiunque avesse a portata di mano uno strumento atto alla digitazione o la capacità di favella.

Si passa dal mi piace al mi fa schifo con una miriade di sfumature che persino quelle di rosso, nero e grigio sono parse fantasiose.

Che il bello non è dire la propria ma creare un seguito, come in tutto, tipo mamma oca e dietro le ochette.

Sarà che tutti gli abiti demonizzati a me parevano di classe, sarà che dove gli altri vedono noia io vedo sobrietà, sarà che di moda non capisco un cazzo ma le piume, i colori sgargianti, le trasparenze dove ci andrebbe la biancheria per me sono così cheap da provocarmi un brivido che nemmeno un congiuntivo inappropriato ah no, quello non lo batte nessuno.

Che poi non è vero, le piume nere, in testa al ritmo di In the shadow le ho indossate anche io sentendomi così centrata da farmi quasi paura. È durata una hit, poi puf.

Quindi ho letto pagelle in cui la classe veniva bacchettata e l’estro inneggiato. Ma per estro non parliamo di Dalì e dei suoi orologi molli, o di un Magritte fluttuante né, tantomeno, di un Pollock danzante, parliamo di gente che ha sfilato sul red carpet con un insieme di colori che la Caran d’Ache sta cercando di capire da dove siano saltati fuori.

“Ma borsa e scarpe non si devono più abbinare, è così demodè” sarà demodè ma i colori a caso a una come me creano un disagio che nemmeno far pipì in autogrill.

La cosa più divertente sono i commenti adoranti alle banalità, un esempio? “I capelli la mortificano”, ma che cazzo ne sai di come si è alzata la mattina? O di che cosa sia mortificante per lei? Si vedeva bene, altrimenti non si sarebbe presentata davanti a un plotone di fotografi pronti a uccidere a ogni click. Che poi si vedesse bene nonostante stesse malissimo, oh, sono gusti. Brutti eh, ma gusti.

Ci vuole un gran coraggio a stare lì vestiti di merda eh. Se non ci credi tu non ci crederà nessuno.

E non parlo di chi lo fa per lavoro o per satira parlo dei commenti sprezzanti di chi giudica a cazzum per il mero piacere di farlo. Gente che, spesso, vive con lo smalto sbeccato dando della sciatta a un’attrice impegnata che ha osato non osare.

Sarà che less is more, anche a parole.

Sono andata lunga e ho criticato il criticabile, me compresa, come sapete il cilicio è un accessorio a cui non rinuncio nemmeno sul carpet, che a casa mia è beige e trattato vista la mia allergia agli acari. Sarà per questo che non mi avete ancora commentata su una passerella, colpa delle allergie. Damn.

Se dovesse capitare sarò quella con un vestito noioso, un’acconciatura noiosa e un sorriso appena accennato.

Oggi avevo voglia di qualcosa di diverso, poco appariscente e un filo pungente. Un tubino nero lungo e un filo di perle.

La noia per qualcuno, la classe per me.

4, 8, 15, 16, 23, 42, vendetta.

Lo dico subito, sono orfana di Lost.

Certo, da ragazzina sono cresciuta con Beverly Hills 90210, ma resto orfana di Lost.

Mi piace ancora David Silver (sì, lo sfigatino del gruppo che è diventato il più figo di tutti), ma Lost resta Lost.

Una serie che, con quel cazzo di finale, mi ha fatto inveire come una dannata ma che mi ha tenuta attaccata allo schermo come nessun’altra.

Poi sono arrivati i tempi moderni…

Premetto di non essere un fulmine nella visione delle serie tv, GOT, ad esempio, l’ho iniziato quando è uscita l’ultima stagione. Un leggero ritardo, di quei miseri 8 anni.

Poi me ne sono innamorata. E il resto va da sé.

Recentemente, con quel tempismo che mi contraddistingue, mi sono messa a guardare Revenge, una serie trasmessa tra il 2011 e il 2015. La mia velocità è pari a quella di Leclerc in retro senza una gomma, motore e alettone alla Rascasse.

Ma andiamo al dunque.

La nostra giovane protagonista ha vissuto un inferno e decide di vendicarsi di coloro che le hanno portato via tutto. E per tutto intendo tutto.

Sì certo, semplifico, ma capirete, non posso tediarvi con quello che vi racconta Wikipedia, cliccate e scopritelo da voi, come per le recensioni dei libri non dico quello che potete leggere ovunque, dico quello che mi va di dire.

Allora, la giovane protagonista che ha disponibilità economiche che nemmeno Trump nei tempi migliori, ha come nemico principale (capirete poi perché dico così) una famiglia di pezzi di merda senza scrupoli, senza pudore e senz’anima che nemmeno i fratelli Grimm avrebbero potuto immaginare. Che saranno anche stronzi indegni di respirare ma hanno un gran gusto nel vestire, va detto.

Quindi, case di lusso, tutti ricchi da far paura, servitù (che nel doppiaggio chiamano proprio servitù), ma in quelle dimore degne di finire su AD può entrare chiunque. Non hanno un campanello, un cancello, un video citofono, nemmeno un batacchio. Entrano ed escono preti, ladri, killer, amanti. Non ci sono allarmi, guardie, pitbull, solo tende svolazzanti che preannunciano vento perenne e sagome ambigue. E poi da quelle finestre si spia che è una meraviglia. Persiane, queste sconosciute.

Gli intrighi sono molteplici, talmente tanti che a un certo punto ho smesso di farmi domande, tanto non avrei trovato risposta.

Se vedi qualcuno di nuovo in scena sai che lei, la nostra Emily-Amanda, gli farà un culo che Tyson a paragone risulta un’educanda.

Segnalo che mi è piaciuto un solo personaggio che a un certo punto muore e io avrei voluto che lui e lei vivessero felici e contenti e invece fa anche una fine di merda e che palle, lo sapevo, ma ci avevo creduto. Chi? AM. Capirete, se no non fa niente, tanto piaceva a me.

Comunque le incongruenze sono tante, le cose che non mi tornano di più, la facilità con cui la gente muore, ma soprattutto uccide, è destabilizzante. Per non parlare di come tutti si innamorino di tutti alla velocità della luce. Marta Flavi avrebbe avuto poco successo.

Eppure la sto divorando, sì, mi manca qualche puntata della quarta e ultima stagione ma ci sono quasi.

Tutto questo per dire che ho i miei tempi e che mi faccio domande del cazzo anche sulle serie tv.

Ma datemi un intrigo, un mistero, una vendetta e lo scorpione che è in me gongolerà.

La fine la temo scontata, al contrario di Lost; perché checché se ne dica, Lost resta Lost.

Settembre, voilà.

Settembre è alle porte, girevoli, quelle che fanno tanto film americano, quelle che alcuni non hanno ancora capito come usare, quelle che presentano segni di ditate sui vetri (sono germofobica, noto dettagli irrilevanti che mi permetterebbero di essere al seguito di Gil Grissom anche senza una puntata al casinò), quelle che a volte schiacciano arti di imprudenti avventori, quelle che se le usi bene ti portano dove vuoi andare.

Settembre fa capolino in un’estate torrida che persino Willy il Coyote nella leggendaria Monument Valley avrebbe avuto problemi di sopravvivenza, e senza che Beep Beep ci mettesse lo zampino.

Settembre che sembra l’acqua nel deserto, il fiore che sboccia, la lampada di Aladino, tutto insieme che se hai un minimo di raziocinio ti domandi dove sia l’inculata.

Settembre che con sè porta aspettative, promesse, ricchi premi e cotillon e delle bollette che ci faranno rimpiangere il boccheggiamento dei mesi passati, quando invocavamo invano un iceberg e avremmo volentieri affogato Rose perché Jack non doveva morire.

Settembre che a me non ha mai detto granché, che sono novembrina dentro e gli altri undici del calendario non contano.

Settembre che sancisce nuovi inizi, chiude capitoli, decreta partenze senza necessità di visto ma a volte con qualche bagaglio.

Settembre che pare un capodanno, un qualcosa di ignoto e bellissimo. O forse solo di ignoto.

Settembre che per mesi è stato invocato e che una volta arrivato: ah sei già qui? Una specie di miraggio che si concretizza e che poi non sai dove mettere.

Che tutto ricomincia. Persino tu.

Insomma, settembre è alle porte anche con una pandemia che non ci lascia tregua anche se pare non esistere più, che si fa un po’ il cazzo che ci va, concerti, spiaggia, giri del mondo che Phileas Fogg a confronto pare non essersi mai spostato da casa. Il tutto documentato fino alla nausea che sia mai si pensi che il culo lo abbiamo lasciato sul divano.

Settembre arriva, inesorabile, come un destino già scritto, anche se è solo un altro numero sul calendario. E poi il destino ognuno lo scrive da sé.

Cosa farci, quindi, con settembre?

Io continuo a scrivere, il resto poi sarà storia, la mia.

Senza freni e senza filtri.

Questo è un periodo di merda, un periodo di merda che va avanti da due anni. 

Un periodo di merda che pensavamo volgesse al termine e invece, lo stronzo, con un colpo di coda ha spostato il covid e piazzato davanti ai nostri occhi la guerra.

E no, non sono qui a parlare di geopolitica come non mi sono permessa di farlo quando tutti si spacciavano per virologi. Parlare a caso, a cazzum, non fa per me. 

Sì, l’autostima ce l’ho anch’io. 

Non so nemmeno cosa verrà fuori da questo scritto, credo di avere solo voglia di buttare giù pensieri ostinati e prepotenti.

Quindi veniamo a noi.

La cosa che mi lascia perplessa, visto il succitato periodo di merda, è come certa gente riesca a fare come se nulla fosse.

Perché niente è come prima. Da due anni non lo siamo più nemmeno noi.

Eppure c’è chi va avanti, tronfio, a parlare solo di sé, a dire che sono tutti cretini, che il covid prima e la guerra ora sono solo fake news create ad arte per mettercelo nel culo. (Il francese rende sempre).

Certo, perché il complotto è sempre dietro l’angolo, acquattato e pronto all’uso, una sorta di giubbotto di salvataggio per coglioni.

Quando non sai cosa dire urla al complotto, qualcuno ti farà un plauso e ti tirerà in salvo dall’oblio del tuo cervello. E invece sei solo in compagnia di qualche altro tuttologo con voglia di fare dietrologia spiccia.

Che poi anche io vorrei tornare alla normalità, che so, ad arrabbiarmi con quelli che non hanno ancora imparato a parcheggiare davanti a scuola, che intasano il traffico e le mie coronarie, che riempio di improperi indicibili davanti a un istituto primario. Vi martello da anni con questa cosa, lo so, chiedo venia, non me ne faccio una ragione ma siamo in quinta elementare, abbiate pazienza, alle medie andranno a piedi. 

E invece no. Non sono tornata alla normalità perché la normalità non so più cosa sia.

Che ora le preoccupazioni sono altre, un filino più pregne di significato. 

Poi oh, ovviamente esiste chi, nonostante i 40 anni suonati, ha in testa solo il selfie quotidiano, la storia stracciamutande con la canzone smielata, che se la dedicassero a me vomiterei la bile. Chi apre e chiude il profilo, chi blocca e sblocca le visualizzazioni. 

Deve essere figo avere le pigne nel cervello. Non capire un cazzo e vivere sereni.

Deve essere figo, per i primi 10 minuti, poi basta.

Quindi no. 

Preferisco inveire e struggermi davanti al telegiornale, credere nella giustizia, nella meritocrazia e negli unicorni.

Nella scienza e nella tecnologia. 

Nel dire quello che penso anche se non dovrei, perché non si dice, non si fa, non si deve.

Vivo prendendo posizione.

Per me.

Perché la vita è una e ci tiene a farci sapere che quanto dura lo decide lei.

E quindi sì, urlo che Putin non ha alibi, non ha ragioni, scusanti e nemmeno un cuore. 

Che il popolo ucraino ha tanto di quel coraggio da commuovermi e tanta di quella dignità da poter essere insegnata, se mai qualcuno sopravviverà per raccontare quello che sta succedendo in questo dannato e lunghissimo periodo di merda.

Quindi fate un po’ quello che vi pare, io mi rimetto a leggere, Dostoevskij per la precisione, che non è la nazionalità a dire chi sei, è quello che hai dentro e, a volte, dentro non hai niente.