Selfie, così, tanto per.

Non ho smesso di leggere, questo mi preme dirlo, a me più che altro, che ogni tanto vacillo nel vedere quanti libri mi stiano aspettando; arriverò, ho solo rallentato un attimo. 

Ho lasciato che il tornado dei miei pensieri prendesse la guida, di me.

Mi tengo d’occhio 🙂

Mi sto lasciando condurre senza navigatore, e per chi mi conosce è praticamente una novità. Io che pianifico tutto, persino l’andamento della mia tachicardia. 

Io che senza controllo sono persa, incapace di immaginare anche solo di non averne.

Eppure viaggio a vista che è una meraviglia. 

In perenne anticipo in tutto, con quella spensieratezza che non mi appartiene e che infatti chi cazzo è mai stata spensierata? Con quella voglia di scoprire di me cose che non ho mai nemmeno sognato potessero appartenermi. 

Più cresco, che a invecchiare non ci penso proprio, più affino quella prepotente e spudorata voglia di vivere che da ragazza pensavo fosse propria della gioventù. 

Non so esattamente chi io sia, ho imparato cosa non sono e non voglio essere, ho percepito la difficoltà di provare a razionalizzare tutto quello che mi aggrada o disgusta, ho capito che adoro non capire un cazzo di me perché la noia di una mente statica potrebbe uccidermi. 

Ho accettato di essere difficile per gli altri ma di più per me.

E alla fine ci sono momenti in cui tutto mi si figura talmente nero da sentirmi un puntino di luce, io che credo di essere la cosa più lontana dalla solarità dell’universo. 

Quindi in sostanza sto imparando a non farmi schiacciare da quello che gli altri pensano io sia per il semplice fatto che quello che sono non è detto, a volte è fatto, altre solo immaginato. 

Quindi, ‘librescamente’ parlando, non datemi per dispersa, sono solo in viaggio e la storia, stavolta, è la mia. 

‘L’apparizione’ quando credere vuol dire tutto.

‘Il ballo delle pazze’ mi aveva commossa, in un vortice di struggimento emotivo, così non potevo non leggere il nuovo lavoro di Victoria Mas. 

‘L’apparizione’ è un libro di poche pagine e tanto soprannaturale. 

Premetto che, negli anni, mi sono più volte allontanata e riavvicinata alla religione, ora sono in una fase, oramai consolidata, che mi permette di definirmi agnostica. Quindi la lettura di questo libro non è stata, per me, poi così lineare (ma questa è un’altra storia).

La scrittura della Mas è molto morbida, soffice, delicata, eppure sa andare in profondità come una lama tagliente. 

La storia è semplicissima: la Madonna si rivela.

Uno stato di estasi pervade un paesino francese tra chi grida al miracolo e chi all’impostore. 

I personaggi sono tratteggiati in modo tale da coinvolgere il lettore, ne vedi l’essenza e ne percepisci il bisogno d’affetto.

L’autrice in questo è maestra.

Alla fine è solo questione di cuore. Di fede. La cosa più vecchia del mondo. Quella che ha scatenato guerre, quella che le scatena ancora.

Una continua lotta tra bene e male lambisce una costa popolata da animi in contrasto. 

Un libro leggero in grammi fisici e pesantissimo a livello spirituale. 

Una storia raccontata dolcemente che dissemina amaro, in bocca e nell’animo. Un amaro violento, tanto da generarmi quasi un fastidio. Una storia che ripongo nella mia personale libreria fatta di emozioni. 

E ora tocca a voi, il mare vi aspetta, sappiate che potrete vederci riflessa una luna tonda e impertinente e forse anche altro.

“Puzzle”, e alla fine manca un pezzo.

Ci sono libri che fanno per te e altri no.

Questo thriller, osannato dalla critica e da tutti coloro che ne hanno scritto, non fa per me.

Mi sono annoiata tantissimo. 

La versione digitale è di 696 pagine, quella cartacea di 432, per me davvero tutto troppo esasperato. 

Troppo lungo.

Troppo tirato.

Troppo.

Mi ha ricordato un film che non mi è piaciuto, non vi dico il titolo ma il regista: Cameron Crowe, poi fate voi 🙂

Il bello della lettura è che è personale. Estremamente personale. 

Ognuno ci vede ciò che vuole. Come nei disegni. E no, non scrivo cose a caso.

Questo libro è pieno di tracce che si leggono chiaramente, ovvio l’autore fa il suo e il lettore il proprio.

Ma.

Ecco questo thriller per me è un grande ma.

Non ho avuto sussulti, palpitazioni, sospiri.

Non ho tremato, e la storia lo richiedeva, credetemi.

Eppure.

Tutto piatto. Una linea piatta in un oceano calmo.

Troppo.

Non mi sono sentita coinvolta. 

I personaggi non mi sono arrivati, inspiegabilmente. Nonostante i dettagli e le spiegazioni sono rimasti sulla carta, piattissimi.

Solito discorso, il gusto ma anche l’anima.

Ci sono cose che mi catturano e altre meno.

Una scrittura che ho trovato lontanissima da me, c’è chi dice che Dicker sia noioso e prolisso, io invece lo adoro. Franck Thilliez invece non ha saputo tenermi sveglia. E data la vicenda narrata è un bel problema. 

Una penna quasi pesante. O forse lo sono stati i miei occhi nell’affrontare le pagine.

Non ho avuto nemmeno freddo, cosa che mi capita quando mi perdo nella lettura.

Il corpo reagisce alla mente e qui, nonostante sia tutto un racconto di testa, la mia è rimasta ancorata alla realtà, la mia.

Quindi no, non è il libro per me.

E mi dispiace, quando succede penso di non aver capito, quando invece è solo che non ho sentito. 

La storia è fitta, il ritmo accelera con il numero di pagine che scorrono ma, come più volte detto, io sono rimasta mera spettatrice di una sceneggiatura che si svela troppo presto e che non mi ha coinvolta nel vortice di emozioni che invece pregustavo.

Sono rimasta a bocca asciutta.

Avete presente quando vi aspettate il piatto della vita, quello da tre stelle Michelin, e invece vi portano una minestra che sa di dado? Ok, a me piacciono sushi e McDonald’s, forse non faccio testo.😊

Insomma, non tutti gli incontri diventano amicizie.

E voi? Avete paura di scoprire cosa c’è nella vostra mente?

Trama: in teoria 4 stelle e ½.

Personaggi: impalpabili, 2 stelle.

Ansia: non pervenuta, 2 stelle.

Scrittura: non fa per me, 3 stelle.

Finale: finisce? Scherzo dai, 3 stelle e ½.

Hip hip ultrà.

Vivo con Holly e Benji, e detto così è tutto un programma. Non quello di Italia1, che mi teneva incollata alla tv con in mano un panino cosparso di nutella mentre finivo i compiti. Ma questa è un’altra storia.

Le partite per fortuna non durano 15 giorni e il campo, anche se a volte presenta insidie, è piatto e non ellittico. Ma sono dettagli.

Ogni tanto per qualcuno, un qualcuno che spesso è fuori dal campo, è più una puntata di Lady Oscar, con sospetti e macchinazioni, che il complottista è sempre in agguato.

Holly e Benji che vivono tra tacchetti e guanti da portiere, che ho scoperto mio malgrado sanno farsi sentire con note di eau di bleah.

Che poi dipende dalla marca, Benji ne ha provate un po’, degno seguace di Gigio è stato fedele alla causa per un po’ ora è passato alla “virgola” che sa di vittoria e che non ho idea di quanto durerà. Ma devo dire che i colori sono sempre spettacolari.

Loro che vivono tra scaldini per gli allenamenti sotto la neve e bottigliette d’acqua gelata per i tornei estivi.

Che il calcio è di chi lo pratica e di chi lo guarda. E chi lo guarda spesso non capisce niente. E sì, sto andando a parare lì.

Io che a 10 anni ero in una squadra femminile e che capisco più di fuorigioco che di fondotinta.

Certo che da genitore è una bella palestra di pazienza.

E non parlo delle partite, degli allenamenti, delle trasferte, dei parcheggi in culo ai lupi, delle giornate passate sotto l’acqua in campi impantanati (ok, questo fa tanto amarcord, oggi, per la loro categoria, sono quasi tutti in sintetico e non ci si sporca nemmeno volendo), no, non parlo dei viaggi, del tempo e del cuore, parlo del pubblico.

Il pubblico dei ragazzini è fatto di parenti. E qui inizia il problema.

C’è il taciturno isolato nel suo mondo, in cui mi rivedo parecchio, quello che vive la partita e si tiene tutto dentro perché se dicesse la propria sarebbero madonne, e non per i ragazzini in campo ma per l’udito troppo sviluppato che gli permette di sentire i commenti di tutti i ct in tribuna. Trapattoni e lo strunz imperversano.

C’è chi fa un capannello, parlano di cose che esulano dal calcio, dal campo, dal pianeta terra. Non vedono i gol, non sanno il risultato, fanno presenza, folclore, fastidio.

C’è chi ne sa più dell’allenatore, del massaggiatore, del capo della Nasa, sa persino chi ha ucciso JFK e ci tiene a dirlo a tutti quelli che sono nel raggio di 15 km.

C’è chi guarda e tace anche se in mezzo alla gente, che incita con discrezione e tanto rispetto. Che fa il suo dal suo posto, che sorride e che in quelle gambette che corrono in campo vede solo tanta voglia di divertirsi.

Vi siete mai chiesti il perché di quei cartelli nei campi da calcio? Quelli che raccomandano ai genitori di fare i genitori? Ci sono per un motivo. Un motivo grande e grosso.

Ci sono perché esiste chi il limite lo supera, chi non si controlla, chi crede di aver generato il nuovo CR7 mentre gli altri non li vede degni di raccattare palle a fondo campo.

Il cartello non cambia gli animi, non li mitiga, non li annulla ma fa riflettere chi ha voglia di riflettere. I mister fanno i mister e spesso sono ragazzini sottopagati che si prendono responsabilità immani. A volte, nelle società di un certo tipo, ci sono scale gerarchiche, allenamenti mirati, diete da seguire, codici di comportamento, diktat e sanzioni.

A volte non è un gioco.

E non lo è nemmeno sugli spalti.  

Eppure loro, quelli che in campo ci vanno davvero, sono ragazzinə con tutti i sensi attivi che l’uomo da sei milioni di dollari e la donna bionica (sono vecchia anche per i rimandi alle serie tv) a confronto erano principianti.

Quindi, come il taciturno succitato, lo sentono il genitore balordo che impreca come sentono quello che sbuffa. E li sento anche io che la pazienza l’ho persa quando sono nata. E infatti là taccio qui meno.

Ebbene sì, sto a distanza da tuttə con la consapevolezza che lo sport unisce chi ha qualcosa da dare e allontana i coglioni.

La mia vena polemica deve essere l’arteria femorale, se parte è finita.

Come quando non si sa.

Non inizierò con la solita storia del “se non hai figli non puoi capire” perché penso sia una cagata pazzesca per certi versi, una sacrosanta verità per altri.

Credo che se sei stupido resterai stupido con o senza figli; se manchi di sensibilità ed empatia meglio un peluche.

Credo che diventare genitori sia una grande fortuna, esserlo una specie di magia.

E puoi esserlo senza diventarlo.

Uguali eppure diversi (e ora molto più grandi di così)

Credo, forse più fanciullescamente spero, che un figlio sia un qualcosa che arricchisce, non completa.

Che se sei “monco” un figlio ti dilania non ti aggiusta.

Che devi essere pieno, non cercare di riempirti.

Altrimenti, come sopra, ci sono tantissimi peluche in cerca di affetto, finto.

Quindi niente “non puoi capire” ma un bel po’ di “che cavolo stai dicendo Willis?”

Perché vorrei sapere come sia possibile essere sempre circondati da gente incapace di accudire un pesce rosso in grado però di dispensare consigli su una prole a cui sono così lontani che nemmeno il Mesozoico.

Eppure parlano, oh se parlano.

Come li devi allattare, e non lo so nemmeno io che due gemelli li ho e li ho nutriti con SanMellin; come e quando devono iniziare a parlare e mi raccomando la sintassi che nemmeno Severgnini loro che invece gesticolano come un T-Rex; per non parlare di quando ti fanno la morale su rispetto, castighi e rimproveri, loro che Sgarbi a confronto è il Mahatma.

A che età vanno fatti, con chi e, se fosse per loro, anche in che posizione, che i chakra non solo li aprono li sfracellano anche.

Una sorta di tuttologi del sapere genitoriale loro che un figlio lo fanno per cementare un rapporto logoro o semplicemente perché “si fa così”.

Che quelli che più ti giudicano come genitore, oltre a i tuttologi con un master in cagacazzismo, sono quelli che genitori lo diventano senza volerlo.

E tu sbagli strada, metodo, omogeneizzato.

Sei troppo vecchio, troppo giovane, troppo amico, troppo padre madre nonno e zia. Troppo tutto o troppo niente. In ogni caso sai fare il tuo come Achille il diplomatico.

Come se ci fosse un copione da rispettare, come se la vita fosse lineare, come se tu fossi come me.

Quindi no, non sono della scuola “se non hai figli non puoi capire” sono della scuola di quelli che si fanno in quattro per fare tutto, che si alzano all’alba, che cercando di stare dietro a quello che c’è da fare, che girano come trottole, che i figli li hanno e se li curano, che dormono quando muoiono.

Eppure oh, quello che ha la metà dei tuoi anni, vive accudito e riverito, ha come pensiero del mese, anno, esistenza l’abbinamento smalto o l’aperitivo trendy che ti dice come crescere i tuoi figli esiste e lo conosci.

E hai tanta voglia di spararlo a fanculo che a confronto la Cristoforetti è dietro l’angolo.

Ah, altra banalità ma che reputo necessario ribadire: non si chiede perché non si hanno figli a chi non li ha come non si cerca di insegnare in modo saccente a chi li ha come crescerli. Stessa faccia della stessa medaglia: IMPARARE A FARSI I FATTI PROPRI. Che la vita è così complessa e variegata che quello che vale per te non vale per me.

Quindi dite quello che volete a chi volete ma una premura ve la consiglio: azionate il cervello con la stessa costanza con cui pubblicate storie su ig.

Non risolve ma aiuta (cit.).

R.S.V.P. ma anche no.

Mettetevi comodi, ho intenzione di parlare di un argomento che affligge le “genti”.

Le feste a tema.

Che già il nome TEMA, sa di esame, voto, scuola, ansia, competizione, schifo.

Troppo tranchant? Non avete ancora letto niente.

Come quando qualcosa stona…

Le feste a tema sono il male, non solo perché a me fanno venire voglia di disertare l’evento che nemmeno Woody Allen alla cerimonia degli Oscar, ma perché chi sei per decidere tu come mi devo vestire io?

Ho già conflitti interiori quotidiani con tutti i miei io davanti all’armadio la mattina presto. Lotte intestine per decidere se questo o quello e tu, tu che spesso non sai chi sono se non per quello che scelgo di farti vedere, decidi che quel dato giorno, alla data ora, indosserò uno spolverino perché da ragazzo Lorenzo Lamas era il tuo spirito guida.

Che poi è così, le feste a tema hanno sempre dei temi imbarazzanti.

Senti come suona bene: tema eleganza, che alla fine ti vesti come ti pare, che il concetto di eleganza è grossomodo univoco anche se con sfaccettature che possono prendere chine pericolose ma almeno hai libero arbitrio.

Invece no: country, che buttero faceva meno scena e bella campagnola pareva troppo da vispa Teresa; o anni ’80, che spesso lo sceglie chi non li ha vissuti quegli anni, che se li avessi davvero vissuti cercheresti di dimenticarli, non di festeggiarli. Accostamenti improponibili che hanno segnato l’adolescenza della scrivente tanto che Linda Blair non mi fa paura quanto un bomber.

Total white, di solito per le feste in spiaggia che se, come me, resti in modalità Casper 365 giorni all’anno significa sparire e fare effetto muro.

Anni ’20, che detto così suona fascinoso, fino a quando non comprendi che l’acconciatura, fatta di onde piatte, è come cimentarsi con una scultura marmorea.  

Harry Potter che fa tanto carnevale, un giorno affronterò l’argomento ma non ora che tanto l’odio traspare anche così.

Party ricercati con piatti che hanno fatto epoca, musiche e allestimenti degni di Cleopatra e che, in effetti, ti fanno venire voglia di avere una serpe in seno.

Quindi l’entusiasmo per l’invito tanto agognato nel momento in cui comprendi che ti porterà a partecipare a qualcosa con un tema diventa insofferenza all’ennesima potenza.

Che devi capire cosa hai già, cosa puoi riciclare, cosa devi acquistare, come potrai svicolare.

La ricerca dell’accessorio perfetto che nemmeno Mata Hari.

Roba che ti resterà nell’armadio come perenne memoria di quanto tu ti sia resa ridicola.

Poi magari ti diverti.

Poi.

Magari.

Ti diverti.

Insomma le feste a tema sono e restano, per me, un dito in un occhio, un mattoncino lego sotto un piede, uno spigolo vivo contro il mignolo. Ma io, si sa, sono polemica per dna.

Forse, più semplicemente, non sono da feste che il mio essere asociale ruggisce forte, forse non sono da tema, (no dai non ci crede nessuno, io che scrivo anche quando dormo), forse solo mi piace decidere per me. E questo è assodato.

Quindi “genti” che sia chiaro, se date una festa a tema non aspettatemi. Passo, non da voi, ma passo.

Settembre, voilà.

Settembre è alle porte, girevoli, quelle che fanno tanto film americano, quelle che alcuni non hanno ancora capito come usare, quelle che presentano segni di ditate sui vetri (sono germofobica, noto dettagli irrilevanti che mi permetterebbero di essere al seguito di Gil Grissom anche senza una puntata al casinò), quelle che a volte schiacciano arti di imprudenti avventori, quelle che se le usi bene ti portano dove vuoi andare.

Settembre fa capolino in un’estate torrida che persino Willy il Coyote nella leggendaria Monument Valley avrebbe avuto problemi di sopravvivenza, e senza che Beep Beep ci mettesse lo zampino.

Settembre che sembra l’acqua nel deserto, il fiore che sboccia, la lampada di Aladino, tutto insieme che se hai un minimo di raziocinio ti domandi dove sia l’inculata.

Settembre che con sè porta aspettative, promesse, ricchi premi e cotillon e delle bollette che ci faranno rimpiangere il boccheggiamento dei mesi passati, quando invocavamo invano un iceberg e avremmo volentieri affogato Rose perché Jack non doveva morire.

Settembre che a me non ha mai detto granché, che sono novembrina dentro e gli altri undici del calendario non contano.

Settembre che sancisce nuovi inizi, chiude capitoli, decreta partenze senza necessità di visto ma a volte con qualche bagaglio.

Settembre che pare un capodanno, un qualcosa di ignoto e bellissimo. O forse solo di ignoto.

Settembre che per mesi è stato invocato e che una volta arrivato: ah sei già qui? Una specie di miraggio che si concretizza e che poi non sai dove mettere.

Che tutto ricomincia. Persino tu.

Insomma, settembre è alle porte anche con una pandemia che non ci lascia tregua anche se pare non esistere più, che si fa un po’ il cazzo che ci va, concerti, spiaggia, giri del mondo che Phileas Fogg a confronto pare non essersi mai spostato da casa. Il tutto documentato fino alla nausea che sia mai si pensi che il culo lo abbiamo lasciato sul divano.

Settembre arriva, inesorabile, come un destino già scritto, anche se è solo un altro numero sul calendario. E poi il destino ognuno lo scrive da sé.

Cosa farci, quindi, con settembre?

Io continuo a scrivere, il resto poi sarà storia, la mia.

‘Il caso Alaska Sanders’, quando leggere è piacere puro.

Joël Dicker, lo sapete, è e resta uno dei miei autori preferiti, non ci giro intorno, non lo nascondo, non faccio finta sia, per me, uno qualunque. Non lo è. 

Ho letto tutto ciò che ha scritto, ho amato ogni sua parola.

‘Il caso Alaska Sanders’ è parte di ciò che già sappiamo, di quel Marcus Goldman che abbiamo imparato a conoscere. Quel file rouge con Harry Quebert e con i Goldman di Baltimore che si sente per tutte le 928 pagine (sì, parlo dell’ebook). 

Citazioni, rimandi, emozioni che non impediscono a chi, invece, decide di conoscere lo scrittore con questo libro di godere della storia senza sentirsi spaesato.
Sapere il resto aiuta ma non vincola.

Dicker ha un tratto inconfondibile, semina sensazioni in ogni lettera, quelle che compongono parole che prendono vita.

Il libro scorre, inarrestabile, con quella voglia di sapere che pervade le viscere del lettore. 

I personaggi sono pieni, strutturati anche se mai del tutto definiti, credo che questa caratteristica li renda ancora più affascinanti, l’analisi comportamentale ed emozionale è così presente che tante cose si sentono in modo vivido eppure un velo di non detto dona quel sapore di mistero.

La storia è su piani temporali diversi ma i salti sono delicati, armonici, nessuna confusione, solo i colpi di scena che solo Dicker sa dosare con tanta maestria. 

Il caso è complesso, i personaggi arrivano nel testo con il ritmo giusto per tenere la tensione alta ma senza il colpo al cuore, con quella melodia da thriller sofisticato ed elegante.

Probabilmente se scritta da lui leggerei anche la lista della spesa ma qui è indubbio il talento nel prendere il lettore e condurlo, scena dopo scena, esattamente dove deve stare.
Nel fulcro della vicenda.

Lo sapete, nessuno spoiler, nessuna rivelazione e nemmeno il classico copia e incolla di quello che potete leggere sulla copertina, io vi dico ciò che sento, come lo sento.

Vivo così ogni libro, quelli che mi piacciono li vivo anche di più. 

Ogni passaggio ha un suo perché, Marcus si svela e si racconta, ciò che conta per lui diventa concreto.
Mancanze, sogni e tanta paura. Di cosa? Leggete e lo capirete. 

Alaska vive nelle pagine anche se, la vita, la perde già nel titolo.

Una storia fatta di piccolissimi tasselli che diventano un quadro maestoso, dannatamente umano, dove niente è come sembra.

Scorci di vita che si incastrano perfettamente mentre sullo sfondo le anime si disintegrano.

Uno di quei libri che sei felice di aver letto, per il puro piacere di esserti immerso in un mondo fatto di parole rotonde e profumate, anche se nere come la notte.

Joël Dicker è e resta un mago della penna anche se, lo confesso, io il cuore l’ho lasciato con Lev e Anastasia. (L’enigma della camera 622, storia diversa ma stesso Dicker).

E voi, quanta voglia avete di risolvere il caso Alaska Sanders? Marcus Goldman e il sergente Gahalowood vi aspettano.

E con loro tutto diventa chiaro, anche in un mondo buio fatto di così tanti segreti da perderci la testa. O la vita.

Leggo me.

È un po’ che non scrivo, lo so, ho avuto da fare, la testa altrove, gli occhi che non riuscivano a restare sulle pagine che per pochi secondi, inutile accanirsi, leggere era diventato complicato, come respirare. Quelle cose che fai naturalmente e che poi, d’un tratto, diventano aliene.

Ho passato un periodo in apnea.

Ho preso tempo, ho preso spazio, ho ascoltato.

Ho buttato il cervello in qualche serie tv, tra famiglie con superpoteri, anni ’80 mostruosi e scorci parigini ho anche letto un libro. Incroyable! Da leggere con veemenza, che ogni tanto il francese, quello vero, mi esce di bocca come se facesse parte di me.

Ma di questo ve ne parlerò nel prossimo post.

Oggi vi dico che leggere è bellissimo ma vivere di più.

E forse ho preso una pausa dai libri per provare a portare fuori dalle pagine la mia voglia di vita.

Il blocco del lettore arriva, bastardo, quando meno te lo aspetti; pensavo di esserne immune, dopo anni famelici di tomi rilegati.

E invece ha colpito, nonostante i vaccini, nonostante gli acquisti nelle librerie, nonostante la mia ostinazione.

È arrivato e, spavaldo, mi ha messo al muro. Ho chiuso il libro, il Kobo, gli occhi.

Ho provato e riprovato ma niente, voglia zero, attenzione non pervenuta, giramento di coglioni violento.

Ho scelto di darmi tregua.

Non è stato facile rinunciare ad avere un personaggio in borsa, sul comodino, nella notte.

Non è stato facile, è stato necessario.

Quelle cose che non ti spieghi, succedono e basta.

Ho messo la testa in tante altre cose.

O forse l’ho persa, la testa.

Ça va sans dire.

Tornerò a perdermi nei libri, nelle pagine cartacee e non; tornerò a fantasticare e a vivere in simbiosi con quei personaggi che tanto mi hanno cullata nel passato e che ora mi vedono camminare sulle mie gambe.

Tornerò a raccontarvi cose, a descrivervi emozioni libresche, a evitare di scrivere le sinossi e a dirvi cosa mi ha fatto battere il cuore e cosa mi ha lasciata impassibile.

Succederà, non oggi ma succederà.

Oggi? Oggi penso a me.

‘La cameriera’, quando la delicatezza spiazza.

Un thriller che di thriller ha un’idea e che poi ha qualcosa di diverso che resta.

Tratta un argomento importante, lascia spunti di riflessione notevoli. Volete sapere perché? Ottimo, ho intenzione di dirvelo.

La nostra protagonista è Molly, una ragazza che vede il mondo a modo proprio, un’anima dolcissima a cui ci si affeziona dalla prima pagina. 

Sullo sfondo un hotel che ha più segreti che camere, dove la spocchia di alcuni non va via nemmeno con il ddt.

Nita Prose ha una scrittura pulita, semplice e diretta, un piacere per gli occhi.

Parole che arrivano al dunque senza tergiversare, proprio come Molly, che dice quello che vuole dire come sente di dirlo.

Un cuore delicato come una farfalla, una solitudine penetrante. 

533 pagine (sì, parlo dell’ebook) che volano veloci. 

Un omicidio che sconvolge un ambiente all’apparenza immacolato. E Molly che ci si ritrova in mezzo. Lei, che di sporco non ha nemmeno le suole delle scarpe.

Mi sono arrabbiata in diversi punti, avrei voluto prendere a sberle qualche personaggio, non vi dico quale, lo capirete facilmente mettendo il naso tra le pagine scorrevoli.

Non ha quella tensione che ci si può aspettare da un thriller ma il tema che tratta, che esce da questa storia, merita attenzione. Che i rapporti sociali e il rispetto del prossimo hanno quel valore immenso che non va tralasciato mai. Che in un mondo di cannibali la dolce ingenuità è pericolosa quanto una pistola carica. 

Lo sguardo di Molly sul mondo è particolare, leggere gli stati d’animo degli altri non è cosa facile, per lei. Cresciuta con immenso affetto da una nonna amorevole ci porterà a spasso per i corridoi di un hotel in cui il pregiudizio corre veloce.

E la cara nonna insegnerà anche se ormai lontana. Tenetelo a mente. 

Un libro piacevole e delicato che sa far riflettere. 

E voi, avete voglia di ascoltare la voce di un’ape operosa? 🐝