‘Un animale selvaggio’ quando la natura prende il sopravvento.

La mia passione per Joël Dicker è lapalissiana, mai nascosta, sempre dichiarata. 



Dopo un periodo di stop mi sono nuovamente immersa nelle pagine di un libro e, non a caso, ho scelto ‘Un animale selvaggio’. 

Non siamo però di fronte al solito autore, il cambio di stile è sussurrato fin dalle prime pagine, non fraintendetemi, la scrittura è sempre molto fluida, ma il tono delle parole è un po’ diverso, la nota di sottofondo è più soffice, quasi leggera. 

Dicker resta Dicker anche in questo libro, le parole sono sempre rotonde e le inquadrature cinematografiche eppure qualcosa cambia.

Il ritmo è sostenuto, a tratti incalzante, la voglia di capire dove l’autore ha deciso di portarci è traino fondamentale di tutte queste 440 pagine.

Ho divorato avidamente questa storia permeata di così tanti colpi di scena da arrivare alla fine con la malinconia di non potermi più rifugiare in un mondo tutto mio anche solo per qualche ora. 

I personaggi sono patinati, strutturati e svelati piano piano. L’autore li spoglia poco a poco per dipingerne l’anima al momento opportuno. 

Il mondo in cui vivono è quello dannatamente umano in cui si annaspa alla ricerca della perfezione. Irraggiungibile anche quando pare essere un dogma.

Non sono solita dire nulla della storia in sé e non cambierò abitudini ora, come sempre parlo delle emozioni che le pagine suscitano in me.

‘Un animale selvaggio’ è un libro che parla di ossessioni, di aspettative e di apparenze. Di vita. Un libro dove i segreti diventano macigni pronti a farti annegare nel lago più blu della Svizzera. Un viaggio introspettivo nell’animo umano che sveglia sensazioni sopite.

Parole delicate che scuotono mondi perfetti.

Un libro che scorre veloce e che lascia con il fiato sospeso, fatto di continui salti temporali che Dicker incastra alla perfezione e che sono la perfetta cornice a un quadro magistralmente dipinto. 

Sarò di parte, forse sì.

Sarà anche che i luoghi descritti li conosco, che più che vederli li ho vissuti e che in questo libro ci sono momenti in cui la vita ti attraversa.

Quindi sì, per me questo libro è da leggere perché la scrittura invoglia, la trama cattura, l’autore strega, anche con uno stile che non è quello a cui ci aveva abituato.

I protagonisti, imparerete a conoscerli, sapranno riempire le pagine con personalità. 

Tra banche, gioiellerie e vita domestica una pantera si farà notare. 

Anche se non con il suo solito incedere tra le pagine, Joël Dicker ha quel modo di raccontare che ti fa solo pensare che leggere sia meraviglioso.

L’adrenalina percorre ogni capitolo, tutti molto brevi, il finale è quello che non ti aspetti, come è giusto che sia. 🙂

Quindi, ditemi, avete voglia di fare un viaggio nella ridente e patinata Ginevra passando per la costa azzurra con tappa sanremese?

Preparate il biglietto, si parte. Il viaggio vale.

Più Furious che Fast :)

Dopo quasi un anno di pendolarismo, con 120 km quotidiani sulle spalle e nelle gomme, ho deciso di incidere su pietra, più per me che per gli altri, qualche maldestra riflessione. 

Esempio pratico di smadonnamento al volante.

Dopo aver fuso un motore, sostituito un parabrezza (se le cose le faccio cerco di farle al meglio, l’approssimazione non fa parte del mio dna), guidato 4 auto diverse, è arrivato il momento di sfogare quello che borbotto nella mia testa ogni mattina. 

Guidare è bellissimo, rilassante, divertente e mi permette elucubrazioni e madonne a cui non potrei mai rinunciare.

Quindi partiamo.

Semafori.

Via.

La permanenza in terza corsia, che sull’A8 per i primi km (e gli ultimi, sì, dipende da che parte la si percorra) è la seconda non è disdicevole.

Non si perde virilità, non si diventa mammolette, non si perde il diritto di mettersi al volante. Se si va piano, o comunque più piano degli altri, ci si sposta e non si rompe il cazzo a chi invece ha il piede un po’ più pesante (tipo me) e una macchina che non ha problemi di ripresa (non la mia, ma è un dettaglio che spesso dimentico).

Che poi c’è il coglione di turno che zigzaga che nemmeno a tetris.

Le frecce sono parte integrante del mezzo. Non un optional, non una cosa messa lì a caso per dare colore e brio con quel ticchettio impertinente. Servono, si usano. Anche se sei grande, grosso e veloce. Servono perché, come detto poc’anzi, tetris va bene ma non per strada. E poi, santa la beata incoronata, ti tocca sempre inchiodare che ho dovuto imparare a mettere la cintura di sicurezza allo zaino sul sedile del passeggero. 

Legnano è una sorta di buco nero al contrario, le macchine non spariscono ma si moltiplicano, sempre nello stesso punto, sempre per lo stesso chilometraggio. La coda è una costante, incomprensibile, fastidiosa e alla fine rassicurante (amo gli ossimori). Se passi da Legnano senza coda sei in uno spazio temporale alla quantum leap dove l’inculata è dietro l’angolo (o sul rettilineo).

I più pericolosi (e coglioni con certificazione) restano quelli che decidono di usare le manine per stare al telefono, scrivono, guardano, maneggiano, che una calamita o un supporto su Amazon no, che Bezos ne ha già abbastanza, cerchiamo di eliminare il problema del sovraffollamento nel mondo sterminando gli sfigati che si incontrano per strada. Bella tecnica di merda.

I lavori per la quinta corsia sono infiniti che probabilmente andrò in pensione prima che finiscano, ah no, scusate ho detto una cazzata. 

La tangenziale ovest di Milano (parlo per me ma credo che dall’altro lato non sia diverso) è il male eppure io resto fiduciosa e ogni mattina la percorro con nuovo spirito entusiasta, poi mi fermo e come mia nonna inizio a inanellare luoghi comuni come un qualsiasi romazetto rosa con spunti tragicomici.

La guida senza musica è qualcosa che non mi appartiene, canto che nemmeno tutti i coristi al Festival, non azzecco una nota, devo essere ridicola da guardare ma la felicità per me è un viaggio canterino. Quindi va benissimo così. 

Il sole in fronte che tutti adorano e anelano è un calcio nel culo per chi è alla guida, perché niente può contro quella palla infuocata che ti attraversa il bulbo oculare e ti fonde la retina che i raggi laser poi li vedi per 6 ore di fila. O ho degli occhiali da sole di merda. 

Non capirò mai quelli con il braccio sinistro fuori dal finestrino, io che guido praticamente solo con quello metterei il destro ma non ci arrivo.

Quelle che si truccano in colonna per me restano eroine io che non so farlo nemmeno a casa con calma.

Detto questo necessito di un pit stop, ma prima la chiusa, che senza non sarei io. 🙂

In sostanza la mia panacea contro i mali del mondo è un viaggio in solitaria al volante in cui sfogo ogni mia sensazione, a volte piango a volte rido pensando sempre tantissimo (ma quello anche mentre dormo, brutto vizio).

Quindi sì, guidare per me è bellissimo e assolutamente irrinunciabile. E le madonne anche. 

Selfie, così, tanto per.

Non ho smesso di leggere, questo mi preme dirlo, a me più che altro, che ogni tanto vacillo nel vedere quanti libri mi stiano aspettando; arriverò, ho solo rallentato un attimo. 

Ho lasciato che il tornado dei miei pensieri prendesse la guida, di me.

Mi tengo d’occhio 🙂

Mi sto lasciando condurre senza navigatore, e per chi mi conosce è praticamente una novità. Io che pianifico tutto, persino l’andamento della mia tachicardia. 

Io che senza controllo sono persa, incapace di immaginare anche solo di non averne.

Eppure viaggio a vista che è una meraviglia. 

In perenne anticipo in tutto, con quella spensieratezza che non mi appartiene e che infatti chi cazzo è mai stata spensierata? Con quella voglia di scoprire di me cose che non ho mai nemmeno sognato potessero appartenermi. 

Più cresco, che a invecchiare non ci penso proprio, più affino quella prepotente e spudorata voglia di vivere che da ragazza pensavo fosse propria della gioventù. 

Non so esattamente chi io sia, ho imparato cosa non sono e non voglio essere, ho percepito la difficoltà di provare a razionalizzare tutto quello che mi aggrada o disgusta, ho capito che adoro non capire un cazzo di me perché la noia di una mente statica potrebbe uccidermi. 

Ho accettato di essere difficile per gli altri ma di più per me.

E alla fine ci sono momenti in cui tutto mi si figura talmente nero da sentirmi un puntino di luce, io che credo di essere la cosa più lontana dalla solarità dell’universo. 

Quindi in sostanza sto imparando a non farmi schiacciare da quello che gli altri pensano io sia per il semplice fatto che quello che sono non è detto, a volte è fatto, altre solo immaginato. 

Quindi, ‘librescamente’ parlando, non datemi per dispersa, sono solo in viaggio e la storia, stavolta, è la mia. 

‘Mille splendidi soli’, quando la lettura segna.

‘Mille splendidi soli’ è un altro viaggio, dopo ‘Il cacciatore di aquiloni’ Hosseini mi ha riportata in un mondo fatto di emozioni devastanti.

Un Afghanistan crudo, straziante pervaso da una indomita speranza. Un libro dolorosamente meraviglioso. 

L’autore ci racconta la storia di due donne che hanno diviso una vita e molto altro. Due donne profondamente diverse con un destino tristemente tracciato.

Anni drammatici che noi, lontani da quella realtà, abbiamo conosciuto dalla fredda narrazione dei telegiornali, violenza disumana che restava (e resta tuttora) sugli schermi per qualche minuto, il tempo di sconcertare, poi si cambia canale e ciao. 

Hosseini ha la capacità di dettagliare soprusi e mancanze umane con una delicatezza incredibile. 

Miriam e Laila sono fiori preziosi a cui sono stati strappati i petali, uno a uno, con movimenti arrabbiati, ruvidi, apparentemente inenarrabili. Loro due, anime innocenti, occupano queste pagine con la pienezza di una poesia.

Un libro che lascia tanto, un libro che non mi ha permesso di prendere fiato, come quando sai che stai ricevendo un dono prezioso fatto di parole sussurrate. Un libro che riporta alla dannata consapevolezza che le donne vengono ancora viste, in determinate culture, come esseri inferiori. Come se la guerra non bastasse.

Donne massacrate, spezzate, nascoste. La cosa che più colpisce è che nulla è passato. Tutto è maledettamente attuale. 

400 pagine di altalena tra rabbia, compassione, paura e tanta speranza. 

Le nostre protagoniste hanno uno spessore che scavalca le pagine e colpisce, un morso allo stomaco. Ho ammirato il coraggio di coloro a cui è stato tolto tutto e con il niente hanno vissuto una vita degna e profonda. 

Ci sono sfaccettature e riflessioni che vanno oltre il raccontato, che toccano corde delicate che fanno decisamente male. 

Vi ho lasciato qui poche parole, lo so, imperdonabile, ma credetemi, questo libro è qualcosa da interiorizzare.

Un libro che si legge con il cuore.

E voi, quanta voglia avete di sperare?

Elucubrazioni estemporanee, un ossimoro, come me.

Nell’ultimo periodo ho letto meno, ho letto e non ho condiviso, ho visto cose che ho taciuto e ne ho vissute altre che mi hanno cambiata. Il tutto in silenzio, uno di quei silenzi rumorosi in testa, che sanno di ronzii, mobili spostati in notti calme, scatoloni ammassati che capitombolano, ingranaggi che girano.

Ho fatto chilometri, mangiato cibi nuovi, visitato posti sconosciuti, imparato cose. Della vita. Di me. Del lavoro. Della mia auto. 

Vivo mille vite in un attimo, mi sento una ragazzina mentre i capelli imbiancano, che stronzi.

Ho lasciato pezzi di me in angoli bui, riparato crepe, rotto cose inestimabili, sono caduta, mi sono rialzata e ho chiuso con chi non aveva più voglia di condividere con me. Ho capito che allontanarsi non è lasciare andare, è aprire gli occhi. 

Che bella la vita da un’altra prospettiva, e che paura. 

Ho consolidato la mia idea che guidare sia davvero meraviglioso anche se passo ore in coda frenando l’istinto di abbandonare la macchina nella corsia che mi ospita e vaffanculo. (Michael Douglas ne sa qualcosa).

Ho guardato And just like that e ho amato, come sempre, solo Carrie, ho odiato in maniera fobica e violenta le mille scarpe sul letto, prerogativa delle serie americane (sigh!), ho sbadigliato per le paranoie e le menate di Miranda, soporifera in ogni sua apparizione, ho sorriso per Charlotte, una macchietta. Samantha quanto cazzo manchi.

Ho realizzato che quello che sono non sempre mi soddisfa ma ci posso lavorare e nel mentre alleno la mia pazienza, perennemente in letargo. 

Ho deciso che mi basto anche se mi prenderei a sberle a ogni piè sospinto. A volte farlo è liberatorio. 

Ho imparato a lasciar correre, anche me. E so di aver voglia di fare così tante cose che una vita non mi basterà. Bastarda. 

Scriverle? Può darsi. Stay tuned. 🙂

‘La lista degli ospiti’, quando l’invito è tutto.

Wow.
Ecco cosa posso dire di questo libro.



La lista degli ospiti è un libro che vibra, con un crescendo potentissimo. 

La storia è lineare, un matrimonio e tanti punti di vista, quanti sono i nostri protagonisti.
Perché ognuno ci racconterà sè e ciò che vive, ha vissuto, ha sperato o solo sognato.

Capitoli brevi che diventano brevissimi sul finire.
Un ritmo incalzante, un battito cardiaco che aumenta fino a sentire il cuore in gola.

L’autrice ha una scrittura diretta, sincera, i personaggi arrivano per quello che sono, nonostante quello che mostrano.

Una coppia così bella da sembrare finta, una damigella delicata, un testimone ingombrante, una wedding planner invisibile, una donna piena di aspettative. 
Imparerete a conoscere ognuno di loro, così bene da leggergli l’anima. 
Attenzione alle conseguenze.
Potreste decidere di odiare qualcuno al punto di uccidere. 
Ops.

Un thriller che ha tutto ciò che si può desiderare. 

Un libro da leggere al buio, in una notte di vento fortissimo. 

Una storia che svelerà tutto al momento opportuno, qualcosa si intuisce, piccole briciole lasciate qua e là a mero consumo del lettore, ed è inebriante il momento in cui tutto si rivela.
Una scossa adrenalinica.

Lucy Foley ha scritto qualcosa da leggere. Assolutamente. 🙂

Che belli i libri che ti assorbono, in cui ti perdi, anche se sei circondato dal fango di una torbiera, su un’isola abbandonata dai vivi e abitata dai morti, con persone che sono un mix tra Bear Grylls e Beverly Hills 90210, belli, fatti, tanta apparenza. E poi? Chissà. 

E voi, siete pronti all’evento mondano dell’anno?

L’invito è arrivato.

‘Teddy’ quando i disegni urlano.

Avete presente i libri che si divorano? Che si iniziano e vanno finiti? Che non puoi nemmeno pensare di chiudere, spegnere o posare perché la curiosità ti mangia viva? 

Ecco, Teddy è uno di questi.

Su Kobo sono 500 pagine, eppure volano, dotate di ali angeliche o demoniache. 

Un libro che è definito horror, che sembra un thriller, che mi è decisamente piaciuto. 

Scorrevole, grazie ai capitoli brevi, permeato di un linguaggio piacevole, colloquiale, armonico. Una scrittura leggera e dei disegni bellissimi, sfogliare per credere.

I protagonisti sono definiti senza appesantirli, tutti dipinti con tratti specifici. Colori accesi, nonostante il nero.

Una storia sovrannaturale che galleggia in una dimensione parallela senza sporcarsi mai, anche se il marcio c’è e si vedrà. Non è questione di fede, di religione, di credenze, è questione di non avere preconcetti e di volersi abbandonare alla narrazione. 

Un autore che mi ha portata dove voleva andassi, con i suoi tempi, che mi ha permesso di capire quello che era giusto capissi, con i miei tempi. 

La vicenda è tutto tranne che un carnevale di Rio. Mallory ha sofferto e soffre, e mi ha fatto tanta tenerezza in queste pagine. Perché i pregiudizi pesano e marchiano, ingiustamente indelebili agli occhi di chi non sa guadare oltre. Ci sono diversi momenti cupi che mi hanno regalato un leggero brivido lungo la colonna vertebrale, una giusta dose di adrenalina ha nutrito la mia voglia di arrivare alla fine.

Un libro che mi ha riportata alla lettura dopo un breve ma pesante periodo di stop, che mi ha fatto capire, nuovamente, che se inizio una storia avvincente non contano il sonno, la sveglia impertinente, le occhiaie, conta solo perdersi nelle pagine e vivere un’avventura. 

Un thriller che il mio scrittore del cuore (S.K. basta leggere sulla copertina) ha amato e ne comprendo il perché. 

Un thriller nero per tanti motivi eppure brillante e luminoso per altri. Che la luce c’è anche quando non si vede, ma si sente. 

Un libro pregno di percezioni sensoriali dove i colpi di scena sono degni di questo nome. Una storia da leggere. E da guardare. Con occhi attenti. 

E voi? Avete voglia di conoscere l’amica immaginaria di Teddy? Prendete foglio e matita. 

‘You’ una serie tv e una sola domanda: perché?

Ho guardato le prime tre stagioni di You e mi domando cosa io abbia fatto di male per meritarmelo.

Una serie tv che mi ha messo il nervoso dalla prima puntata. 

Il protagonista mi stava già altamente sulle palle in Gossip Girl, qui gli sputerei in un occhio a ogni inquadratura. 

Uno stalker psicopatico da internare con il fascino di Topolino. (Disney non volermene).

Oltre a non capire come tutte cadano ai suoi piedi mi domando come riesca a passarla liscia ogni volta.

Non brilla per genialità. 

Tra la sua propensione alla masturbazione in ogni lago e in ogni luogo, che va bene tutto ma trattieniti, invece no, timbra il cartellino in ogni puntata, e la sua capacità di innamorarsi ogni 3 secondi scarsi (che lo capisci da qui che non ha idea di cosa sia l’amore), è di una noia mortale.

Le donne? Furbe come Sid dell’Era glaciale.

Lui che poi pesa 50 chili bagnato pare avere la forza di un Marvel sotto steroidi, credibile come me con un uncinetto in mano.

Ci sono più morti in questa serie tv che in CSI, NY, Las Vegas e Miami messi insieme, e morti male. 

Una passione per le armi da taglio che a confronto Conan il Barbaro era un pacifista. 

Una delle protagoniste, che pare un’educanda per circa 20 minuti poi diventa la sorella cattiva di Manson e non quello che canta, passa tutta la seconda stagione con i capelli sporchi, nella terza a un certo punto si concede una piega. Che fatica anche solo guardarla.

Per non parlare delle scene di sesso, trite e ritrite, afrodisiache come un piatto di pastina scotta e fredda.

Una serie che mi ha portata a chiedermi: sono forse masochista? O semplicemente sto cercando di espiare colpe che ancora non ho commesso?

Comunque a breve la quarta stagione, spero vivamente che qualcuno gli faccia un culo quadro a questa gente che ammazza come io ordino cibo pronto, con una facilità devastante. 

Odio tutto di questa rappresentazione: i personaggi, inetti anche quando commettono delitti efferati, vuoti, noiosi qualcuno direbbe ‘da estinzione’, le parole, sempre le stesse, i cliché, sparpagliati ovunque. 

Lo so che guarderò le nuove puntate, lo so perché devo mettere la parola fine su questa serie tv che non mi sento di consigliare a chi abbia anche solo una briciola di buon gusto. O forse sì così dividiamo il tempo buttato?

Ho ‘sto vizio maledetto di dover finire le cose che inizio, anche se mi fanno schifo.

Che brutto vizio. Bruttissimo.

E non voglio parlare di politicamente corretto o di messaggi sociali perché in questa serie c’è il peggio del peggio del peggio e li hanno anche pagati.

Uccidere con una facilità inaudita, senza il minimo rimorso e anche con una certa soddisfazione ma soprattutto senza senso, in nome di un amore che non è nemmeno infatuazione. Insomma stiamo confondendo il tutto con il nulla.

Lucifero ringrazia.

Quindi tiriamo le somme: serie noiosa, folle e non in senso positivo, surreale (muore così tanta gente e nessuno se ne cura che nemmeno nei peggiori Bar di Caracas), eccessiva e assolutamente delirante. 

Uno di quei programmi di cui si può serenamente fare a meno, come le lezioni di corsivo.

‘Tasmania’ quando in cielo c’è di più.

Paolo Giordano per me non è una novità. 

Mi ha segnata con ‘La solitudine dei numeri primi’ e completamente catturata con ‘Divorare il cielo’.

Ecco, questa è un’altra storia. 

Giordano per me ha una penna che travolge, rotonda e morbida, vivida e strutturata. Una di quelle che ti fanno capire che i libri sono un regalo meraviglioso della vita.

I suoi personaggi mi sono rimasti addosso e ne sento ancora la presenza, seppur a distanza di anni.

Tasmania è qualcosa di diverso. 

Non fraintendetemi, resta la scrittura che conosciamo ma con qualcosa di inaspettato. 

Qui non ci sono personaggi a cui affezionarsi, qui ‘il personaggio’ è l’essere umano, colui che ha voglia di cimentarsi nella lettura, colui che non ha paura di farsi domande. 

P.G., il nostro protagonista (che sia l’autore stesso non è esplicitato ma le somiglianze sono diverse), è un uomo alla soglia dei quarant’anni che attraversa una crisi, una di quelle che ti sconvolge anche se non si vede.

Famiglia, matrimonio, lavoro, amicizia, paternità, vita.

Se vi viene in mente altro probabilmente c’è. 

Una storia raccontata in prima persona in cui P.G. non ha filtri ma una parlantina loquace anche quando non dice.

Tra nuvole, scienza, bombe (e sono due, grosse e pericolose, leggere per credere, le due più famigerate del mondo, per intenderci, con nomi talmente assurdi da sembrare cartoni animati, e invece), P.G. si mette a nudo. 

Paure, confessioni, desideri, traguardi, cadute rovinose, salite e discese. 

Amicizie durature e non, segreti inconfessabili che poi si confessano sempre, figli che ci sono senza averli concepiti, parole sospese e domande senza risposta. O forse sì, basta cercare.

Un libro che scorre via in un flusso di coscienza continuo, senza soste, con una fluidità che, seppur di palo in frasca, resta e si sente.

Che se la penna la usi con maestria poco conta che sia un viaggio tra anime in balia del vento o la ricerca di qualcosa che è introspezione pura.

Quindi sì, Paolo Giordano per me non è una novità ma una piccola certezza, sa portarmi lontano anche quando si parla di crisi esistenziale. 

E voi, lo sapete che le nuvole sono molto più di quello che vediamo?

Come quando ci rifletto.

Quando mi capita di non apprezzare, capire o sentire un libro mi sento in colpa.

Mi sembra di avere qualcosa che non va.

Mi sento come difettosa, difettata, da sistemare.

Poi penso che non mi piace nemmeno la moda anni ’80 quindi tanto male non vado.

Un po’ come la musica, ci sono sonorità che ti fanno dondolare e altre che invece ti tengono ancorato a terra con la voglia di spegnere il rumore.

Ci sono autori che non mi dicono niente, che non permeano il mio animo, restano lì in superficie e basta.

Un galleggiamento noioso.

Altri invece sono un’esplosione di colori. Si insinuano nel mio io e vagano in me che nemmeno le pillole di Matrix.

Sento le parole sussurrate, urlate, anche solo pensate, sento la pelle reagire al contesto, i brividi, le lacrime. Divento un tutt’uno con i protagonisti dei romanzi che mi restano addosso e arricchiscono il mio essere.

Esploro sensazioni, tocco cuori, soffro e amo disperatamente.

Ho libri del cuore che più passa il tempo più sento miei: L’ombra del vento, Divorare il cielo, Cambiare l’acqua ai fiori, L’enigma della camera 622, Follia, per citarne solo alcuni.

E poi autori che, con tratti tutti differenti, hanno saputo donarmi piacere puro di lettura: Kerouac, Kafka, Roth, Carrisi, Perrin e molti altri.  

Tutti diversi eppure con una cosa in comune, mi hanno lasciato qualcosa che non voglio perdere mai.

Le emozioni.

Amo le voci nuove, adoro cambiare genere e tuffarmi in acque impervie. Adoro fermare il mondo e vivere quello che le pagine sanno raccontarmi.

E non serve l’ambientazione spettacolare, lo stupore a ogni costo, aiutano eh, ma basta la penna giusta, quella sinfonia che vibra con il tuo respiro e lo accompagna mentre tutto smette di esistere e le pagine prendono vita.

Quindi sì, mi sento in colpa e anche un po’ sbagliata ogni volta che qualcosa non mi piace, eppure sono grata di questo, perché amo imbattermi in capolavori letterari (per me ovvio), che sanno regalarmi esperienze uniche, indimenticabili e vivide.

Che leggere è un’esperienza pregna di significati, tutti quelli che saprai trarne.

Alla fine va bene così, come ho detto oggi, nella recensione, non è solo gusto, è anche anima. Quando i 21 grammi si fanno sentire vuol dire che le pagine hanno trovato la via.