‘Amo la mia vita’. E io anche la Kinsella.

Lo ammetto, ho un debole per Sophie Kinsella, amo i suoi libri e la sua scrittura esuberante.

Ava ha una vita fatta di colori e caos. Tante idee e poca costanza. Amiche e un cane adorato. In Italia per un corso di scrittura incontra un uomo che la travolge e se ne innamora.

Ma le parentesi estive sono qualcosa di lontano dalla realtà quotidiana e, come se questo non bastasse, i due non si sono detti nulla delle proprie vite, nemmeno il nome.

Londra li riporta alla vita vera e a tutto quello che non sanno dell’altro.

Inizia così una storia che, sulla carta, pare decisamente complicata. 

Gusti diversi, ritmi opposti eppure la voglia di farla funzionare. Compromessi e aspettative. Un gran casino.

Ho riso fino alle lacrime, con questo libro.

Sophie Kinsella con la sua scrittura fresca e attuale riesce sempre a colorare il mio mondo.

I suoi personaggi sono deliziosi. 

Una delle cose che più mi affascina, del suo modo di scrivere, è la capacità di raccontare storie con leggerezza permettendomi di portarmi a casa spunti di riflessione. Perché per scrivere ‘libri leggeri’ serve avere parecchio spessore. E la Kinsella ne ha.

Una storia tenera, romantica, divertente. Scene esilaranti, pasticci e buoni sentimenti popolano le 300 pagine di questo libro. 

Ho una voglia matta di raccontarvi qualcosa di più ma non sarebbe giusto, gustatevelo, pagina per pagina. (Vola, vedrete).

Questo romanzo è piacevole, come una camminata all’aria aperta. Un libro che mi serviva, che mi ha regalato il buon umore e che consiglio a tutti quelli che hanno voglia di sorridere, di cuore. 

E voi? Cosa aspettate a fare amicizia con un beagle di nome Harold pieno di voglia di combinare guai? 

L’ipnotista. Un libro che arriva dal freddo.

Quando ci si aspetta tanto spesso si resta delusi. Ecco, in parte, e ripeto, in parte, è quello che è successo a me con questa lettura.

Non dico che questo libro non mi sia piaciuto, non scherziamo, quelli che non mi sono piaciuti sono altri, semplicemente non mi ha fatta andare da nessuna parte. Sono rimasta tra il mio divano e la poltrona. Non ho tolto ore al sonno e questo, per me, è un indizio, una prova e persino una sentenza. Inappellabile.

So che questo libro ha avuto recensioni splendide, è un libro del 2010, ha segnato un periodo, ma non ha lasciato un segno in me.

Non ho avuto freddo nelle notti svedesi, non mi sono affezionata a nessuno, non ho sussultato sul finale. Le descrizioni sono lunghe, a volte troppo. Sapete quanto io ami Dicker ecco, Joel mi è sempre sembrato pertinente, mai prolisso, in questo libro, invece, la lettura è lenta, come rallentata da troppi dettagli: la strada, la neve, il colore delle pareti, quello che prova questo e quello che prova quello. Tutto descritto perfettamente, eppure, in quelle stanze e in quelle strade, io non ci sono stata. Le ho viste, da lontanissimo.

I nomi ripetuti molte volte e sempre completi di cognome, il poliziotto con accento finlandese, un accento che viene ribadito di continuo, l’ipnosi appena accennata per buona parte del testo. Il delitto da cui scaturisce la storia è orribile eppure non ho provato nemmeno un brivido.

Non fraintendiamoci, è un bel thriller. Punto. Un libro che leggi e riponi nella libreria.

La coppia di autori, sì, Lars Kepler sono due e, per la precisione, sono marito e moglie, hanno fatto un ottimo lavoro, solo non mi sono sentita coinvolta. E se non partecipo alla storia il libro non mi tocca.

La dimostrazione è averci messo quasi una settimana per arrivare alla fine.

A metà libro si fa un salto indietro di 10 anni, una parte della storia dipana da lì. Erik Maria Bark è un personaggio che immaginavo con più spessore. Forse più risoluto. Forse più concreto. Ha una dipendenza da farmaci che lo rende, per buona parte del testo, quasi inconsistente.

Joona, il poliziotto con il famoso accento finlandese, ha un comportamento tenero, protettivo, forse avrebbe meritato più spazio fin da subito.

Il disagio di questa Stoccolma è palese, una città in cui succede di tutto sotto gli occhi, indifferenti, di tutti.

Ci sono passaggi che mi hanno allontanata dalla vicenda, digressioni che ho percepito pesanti. Ma tutto serve per capire chi si ama e chi invece si legge e basta.

Verso pagina 400 ho sentito la voglia di andare a un ritmo più sostenuto, ma capirete, è un tempo troppo lungo.

Certo, a questo punto mi era venuta voglia di stupirmi, arrivare alla fine e dire wow.

No, nessun wow ma diciamocelo, arrivo da un libro che mi ha completamente scombussolata (la recensione di qualche giorno fa, ve la sarete mica persa?) e si sa, non è facile eguagliare l’inarrivabile, qualunque sia il genere.

Il rapimento del figlio del medico a un certo punto sembra marginale, e invece dovrebbe essere il fulcro di tutto.

‘L’ipnotista’ è un libro che ha arricchito il mio lessico, la mia libreria, la mia conoscenza di una Svezia in cui la polizia conta meno di quanto pensassi e dove il freddo non è solo atmosferico.

Me lo aspettavo più introspettivo, più ‘psicologico’, più coinvolgente.

Avete presente quando vi trovate davanti a un’opera d’arte che vi toglie il fiato? Per me tutti i lavori di Jackson Pollock sono magnetici e poi ci sono i quadri belli che sono solo belli. Questo libro, ai miei occhi, non è un Jackson Pollock.

E voi? Quante aspettative avete ora? Se non sono molte il libro potrebbe stupirvi. 😉

Giochi riusciti e altri meno.

Avete presente quando una cosa vi piace ma allo stesso tempo non vi convince? Ecco questo libro da una parte mi piace e dall’altra non fa per me.

La trama è piacevole, succosa, intrigante. Nera. Ma la voglia di leggere altro di questa scrittrice no, quella non c’è. Tutto inizia con l’omicidio di uno stupratore, da lì il via per un gioco al massacro ben orchestrato che coinvolgerà la detective Stone e non solo professionalmente. 

Sarà che non mi sono mai sentita vicina alla scena, alla storia, sarà che tutto succede molto in fretta e che Kim, la nostra protagonista, ha sì indiscusse doti, ma doti che mi fanno perdere il pathos perché lei sa ma io no. E io voglio capire. Dai lineamenti del viso lei capisce che qualcosa non va. E io? Come lo capisco io? Ci sono quelli che impazziscono per Horatio Caine, ecco, io invece lo trovo monoespressivo e noioso. Per me questo libro è un episodio di CSI ma tutto recitato da Horatio. 

Bella storia, e no, questa volta Fedez non c’entra, ma non per me. Ho sentito poco i personaggi, e se non mi affeziono vivo il libro a metà.

E poi la cattiva della situazione, Alex, non vi svelo nulla è scritto nelle prime pagine, sembra più dotata di superpoteri che di intelligenza umana, seppur elevatissima. Manipola come un artista persone fatte di creta. Forse troppo. Tutto.

L’argomento trattato, anzi, gli argomenti, sono pesanti e davvero seri, l’inquietudine per il detto non detto, per le storie di ragazzini abusati sono angoscianti ma non sono riuscita a ‘entrare’ in quelle pagine. Sono rimasta a galla. Mera spettatrice, un po’ annoiata, di una storia che mi è passata attraverso lasciandomi addosso poco e niente.

Una storia drammatica eppure tutti si fidano e si confidano e in un battibaleno ti viene detto questo e quello. Mi manca il sentimento, che anche nei thriller è vitale, l’ossessione, per dirla in maniera teatrale questo libro ‘ha la stessa passione di una coppia di nibbi reali’, e invece servirebbero il ‘canto con rapimento e la danza di un derviscio’ (cit. Meet Joe Black).

Ho letto recensioni appassionate di questo libro e mi spiace non aver provato la stessa emozione. 

Forse mi aspettavo ‘troppo’. O forse altro. Semplicemente non credo sia l’autrice per me. Quindi è un ni. Sono contenta di aver letto questo libro ma mi fermo qui, niente anima, e quella, quando leggi, devi trovarla.

Giochi e variazioni sul tema.

Come ti disfo la vacanza.

Che io sia quella ansiosa che programma sempre tutto con anticipo siderale credo sia lapalissiano. Con le vacanze non mi smentisco, fosse per me programmerei il tutto di anno in anno. E di solito ci provo. Quando ancora siamo in viaggio comincio a sondare con marito facendo mille domande per la meta successiva.

La prendo larga, lavoro ai fianchi; come se niente fosse mi metto a chiedere, a livello ipotetico, cosa gli piacerebbe visitare l’anno seguente. All’inizio mi dava corda, ora mi guarda e capisco che devo darmi una calmata.

Dopo qualche mese torno all’attacco, impavida, un filo incosciente e con una caparbietà che finisce per avere la meglio. Lo prendo per sfinimento.

Tendenzialmente organizzo tutto con un anticipo di 5/6 mesi, con la scusa che siamo in 4 e che non mi voglio accontentare di quello che trovo. Ho tutte la app possibili e immaginabili, studio le foto dei bagni nei minimi dettagli e poi decido. (Pensatemi quando pubblicate foto sui social delle strutture in cui soggiornate ;))

Sì, sono una cagacazzo incredibile ma non sbaglio un colpo. Seleziono alla grande.

Poi capita che una pandemia stravolga ogni progetto e che tutti i miei programmi vadano all’aria. E io con loro.

Con tutta la leggerezza che il momento mi concede (conscia del fatto di scrivere con il sorriso sapendo che i problemi sono altri) ammetto di averla presa meglio del previsto, niente melodramma, solo qualche imprecazione in aramaico, elfico e mannaggialaputtana.

Ho spostato voli, riprogrammato voli, rispostato voli, perché l’ottimismo aveva avuto la meglio sul mio senso pratico e forse anche sulla ragione.

Ho annullato hotel, riselezionato hotel, scritto a staff di hotel, salutato hotel.

Avrei voluto i rimborsi per i voli ma sappiamo tutti come funziona con le compagnie low-cost, quindi ho un tot di viaggi programmati che chissà quando farò.

E siamo in agosto. Ora come ora, nel mio mondo ideale, avrei già programmato le vacanze di Natale e invece sono ancora in alto mare con quelle estive… (alto mare sarebbe già qualcosa, sono proprio ferma in autogrill).

So che ci ricascherò, che proverò nuovamente a muovermi con anticipo, che riprenderò a martellare mio marito cercando spunti e ispirazione per mete ancora inesplorate. So che sbatterò il muso, perché altrimenti non sarei io. Ma so anche che imparerò a confrontarmi con altre esigenze. Si chiama crescere, che dipenda da una pandemia o meno.

Questo 2020 alla fine mi ha solo confermato che niente va come pensavo dovesse andare, che gli imprevisti non devono per forza togliermi il respiro, che tutti quelli che si lamentano di non andare mai da nessuna parte sono con i piedi a mollo al mare o con il culo al sole in montagna, mentre io smanetto su tutte le mie app per trovare un posto che mi soddisfi.

Partecipare conta se vinci.

Cip e Ciop sono estremamente competitivi. Dallo sport arrivando alla scuola passando per il cibo, le attenzioni, i cazziatoni e i programmi tv.

Una lotta continua, un voler primeggiare, uno sgomitare fraterno che non riesce a farli stare lontani nemmeno dopo la battaglia più feroce.

Reclamano spazio, tempo, discorsi dedicati.

Non accettano di perdere. E quando giocano uno contro l’altro sembrano Ettore e Achille; Jack Sparrow e gli Inglesi; Thanos e Iron Man. Lotta all’ultimo sangue (prima o poi temo in senso letterale, il sangue macchia, fanculo).

Mi sono trovata così a fare una riflessione, ho traslato quello che vedo in loro e mi sono domandata quanto importi a me, non arrivare seconda.

La competizione non mi appartiene. Non sono competitiva, io voglio semplicemente vincere. Scherzi a parte, sono una che si mette in gioco, che accetta la sconfitta (ma quanto brucia) e che, se perde, ci tiene alla rivincita. Perché dalle disfatte ho quasi sempre imparato e perché sono una che non si arrende, che la vera sconfitta è non provarci più.

Se vuoi giocare mi trovi alla linea di partenza, ho letto tutto il libretto di istruzioni e sono carica a molla. Fascetta, polsini e la tenuta più ginnica che si possa immaginare. Poi magari sbaglio direzione e faccio la mia classica figura di merda ma, a livello teorico, ero prontissima.

La vita la vivo così, una partita alla volta; odio perdere, anche se a volte fingo non mi importi, non sono figlia di de Coubertin e così, se so che proprio non ho chance, non gioco. Aspetto di capire le regole, mi alleno e poi ci provo, conscia della possibile sconfitta (che in quanto a pessimismo potrei giocarmela con Leopardi).

Ho fatto così anche all’università, se non mi sentivo pronta l’esame non lo davo; la debacle non era contemplata. Ci ho messo qualche anno in più a raggiungere il traguardo ma sono sempre tornata a casa vincitrice. Con il senno di poi uno spreco di tempo ma l’audacia, se non è innata, va capita.

Oggi resto quella che vuole vincere ma che non disdegna di arrivare ai piedi del podio. Il cucchiaio di legno non mi spaventa ma mi sprona, che come arma non è affatto male.

Rispetto le regole e non faccio lo sgambetto a nessuno ma se voglio vincere, e voglio vincere (ma io lo negherò fino allo stremo), mi alleno fino a rendere il mio avversario inoffensivo. Uno straccetto che a confronto l’11 maggio 2001 a San Siro non è successo niente. Che mi basti una vita o ne servano due, poco conta, la resa non è un’opzione.

E voi? Vi siete mai chiesti quanto conti per voi vincere? Una di quelle domande a cui forse non si risponderà mai quello che si pensa davvero…

Once upon a time.

Sogno meglio da sveglia.

Tutti abbiamo un sogno, chi più di uno, chi uno solo ma enorme, chi lo cambia a ogni piè sospinto, chi invece non lo modifica mai e se lo porta dietro per tutta la vita.

Io ho il mio. E si sa, sono una che sogna in grande.

Il mio è uno ed è di proporzioni bibliche ma senza piaghe, acque, monti e pietre scolpite. Sempre lo stesso da quando ho coscienza di me. Sono monotona, sì, e se vado in fissa con una cosa quella cosa mi resta addosso come un tatuaggio. Indelebile. Immodificabile. Perché se una cosa la voglio ci provo, imparo, ci lavoro, studio, ci sbatto faccia, mani e piedi, piango, cancello, rifaccio… poi spesso va in niente e resto con il culo per terra. Ciao, sono Sonia, mi sono illusa e ricomincio. Stesso sogno, stessa me, qualche cicatrice in più che fa tanto rock.

Questo blog è una parte del sogno, un pezzo del percorso, una delusione per alcuni, una soddisfazione per me. A tratti alti altissimi, a tratti bassi bassissimi.

Un diario atto a straparlare, una vittoria nei confronti della vergogna innata, quella scritta nel mio dna, quella che mi rende bordeaux se parlo in pubblico, quella che mi fa piangere se mi innervosisco. Quella che fa parte di un carattere forte e debole al tempo stesso, vanitosa ed estremamente riservata. Ciao, sono Sonia e sono un ossimoro vivente.

La lotta con la voglia di fare e la paura del risultato. Che poi non è paura del risultato, è paura del giudizio altrui. Perché, se in una cosa ci metti tutto quello che hai, vederla denigrata e presa in giro fa paura, fa arrabbiare, fa schifo. Ma le critiche devono esserci, che crescere è accettarle, o perlomeno non voler uccidere chi ti considera un beota. (Sarai bravo tu!).

Io ci ho messo una vita a capire di volerci credere davvero, nel sogno. Sul come perdere tempo nel rimuginare sulle cose ho un master. Ci ho messo 20 anni a decifrare un battito del cuore accelerato ma ora che l’adrenalina è in corso l’unica potrebbe essere una botta in testa. E no, non provate ad avvicinarvi a me con una mazza da baseball che il dobermann non morde ma corre veloce.

Mi sto dando una possibilità. Ho accantonato la mia vicinanza di pensiero alla ‘gioia’ prepotente e viscerale di Schopenhauer e Marilyn Manson (verrò punita per questo sacrilego accostamento) cambiando strada, città, pianeta, senza però arrivare al ‘penso positivo’ di Jovanotti perché a tutto c’è un limite.

Sapete che vi dico? Sognate e credeteci, in quello che fate. Non cambierà niente ma sì, parlo per esperienza, sorriderete di più. E detto da una con il muso perenne è una gran bella battuta.

Selfie.

Applausi per cit. (Semicit.)

Ci sono cose che, come tutti, non sopporto: la maleducazione, la mancanza di rispetto, l’arroganza, spesso le persone in generale ma questo è un problema mio. Un eremo ogni tanto mi farebbe comodo e mi renderebbe felice. Così, a tratti.

Sui social quello che odio di più è vedere gente copiare. E non parlo di look, capelli, trucco, vestiti, quello è fatto apposta ed è così che gira l’economia. Si chiama business.

Io parlo di chi copia le parole degli altri. Lo trovo rivoltante. Perché le parole non sono solo parole. Sono emozioni. Niente nasce per caso. Ogni cosa che ho scritto, anche la più banale e stupida è nata da qualcosa che mi ha scosso dentro. Volete la frase? Prendetevi anche la scossa. Una scarica elettrica che nemmeno nei recinti di Jurassic Park (lì bastava disattivare l’interruttore, con il corpo umano è un filino più complicato).

Le parole non sono mai solo parole. Lapalissiano, lo so, eppure rimarcarlo pare doveroso. Non sono solo un ammasso di lettere una dietro l’altra, non per me, non per chi ci crede davvero. Sono emozioni personali che si condividono, certo, ma restano intime, proprie. Puoi sentirle a te affini ma difficilmente le potrai scrivere nello stesso identico modo.

Perché scrivere è come parlare. Inflessione, ritmo, cadenza, accento, turpiloquio e punteggiatura. Come respirare, lo facciamo tutti, ma c’è chi rantola, chi sibila, chi ha l’affanno; il suono pare lo stesso eppure cambia, a volte in maniera appena percepibile. Ma i dettagli contano, contano sempre.

Sono gelosa delle mie parole nel limite in cui mi vengono tolte. Puoi usarle, non le metterei su un social altrimenti, ma quelle tre lettere, quelle scritte così: cit. sono imprescindibili. Per me.

Non mi prendo meriti che non ho, cosa che a volte faccio con le colpe, ma le parole oh le parole. Se sono mie le ho sentite sottopelle. Non sono un vestito che presti, sono un vestito che regali ma con il tuo profumo, indelebile. E quel profumo si deve sentire. Non puoi fingere che non ci sia. Quelle parole non sono tue. Non lo saranno mai perché non hai vissuto quello che le ha fatte nascere. Usale, strapazzale, coccolale, falle tue a tuo modo, non in quello degli altri.

E non vale solo per chi ha ‘un nome’. Pinco Pallo vale come tutti gli altri, lo ha detto Pinco Pallo? Cito Pinco Pallo. Fine. Facile e veloce. Non è dissacrante ammettere di aver citato un pirletta qualunque. È riprovevole non farlo.

E non perché sia un genio ma perché lì, in quelle parole, c’è una parte di Pinco Pallo (se esisti, caro Pinco, sappi che per me sei come Tizio, Caio e Mevio nei libri di diritto dell’università).

Si chiama onestà. Intellettuale o meno che sia. Si chiama correttezza.

Valori che non impari, o li hai o niente. Come chi si appropria di un lavoro altrui. Come chi ti usa e poi ti butta.

Scrivere una cosa e vederla capita, condivisa, persino criticata e martoriata, è vitale se ami scrivere e usi i social, vedersene togliere la paternità invece no, non è piacevole.

Bene, a me si può dire ciò che si vuole (nei limiti della mia permalosità, ma che non fossi affabile era indubbio) ma che siano parole autentiche, di chi apre la bocca o digita sui tasti. Altrimenti silenzio. Che le parole meritano rispetto e chi le ha scritte anche.

Penso quello che scrivo e scrivo quello che penso. Ma più di tutto io, quello che scrivo, lo sento. (Refusi compresi).

E poi mi chiedono perché io ami i numeri dispari.

Questo 2020 non ha intenzione di essere secondo a nessuno, vuole vincere, anzi stravincere, vuole essere il vero, unico e solo annus horribilis, dall’inizio alla fine.

Perché si sa, se una cosa vuoi farla devi farla al meglio. E questo 2020 è uno stronzo senza limiti.

È il fidanzato traditore, il collega incapace e fastidioso, l’amica pettegola, la conoscente saccente, il tuttologo ignorante e ottuso. Il 2020 è tutto questo, tutto insieme.

Tollerante e rispettoso come Trump, sensibile e delicato come uno tsunami, appropriato come Gollum a una cena di gala.

Il 2020 ama strafare.

Incurante di ‘less is more’, strafottente come un ingordo davanti a un buffet, egoista come solo un egocentrico fatto e finito può essere.

Ci sta dando 2020 motivi per odiarlo, ci sta facendo rimpiangere le sfighe immani dettate da Nostradamus, dai Maya e da Cassandra.

Non bastava la pandemia, la crisi economica che ne è derivata, gli incendi, i terremoti, l’ebola, serviva anche la rivolta americana.

E siamo solo a giugno.

A voler ben guardare viviamo in un mondo profondamente incoerente, dove si dice tutto e il contrario di tutto nel giro di 15 minuti (Andy Warhol lo sapeva che quei dannati minuti sarebbero stati importanti) ma possibile che l’unico coerente doveva essere un anno di merda?

E poi ti dicono di guardare il bicchiere mezzo pieno, sì, sarà anche mezzo pieno ma a occhio e croce è tutto cianuro.

Sto pensando che, per dell’acqua pulita, mi convenga andare direttamente alla fonte, come un’avventurosa Messner, che io, di questo 2020 forse forse non mi fido più.

2020 stai esagerando.

Noblesse oblige.

Fin da piccoli ci insegnano che le parolacce non si dicono, che rendono la persona volgare, che non serve il turpiloquio per corroborare un concetto.

Niente di più vero e falso allo stesso tempo.

Perché sì, le parolacce ci fanno perdere quel soffio di purezza ma ci danno il vigore del fuoco.

Una sorta di Capitan America con il carattere di Hulk.

Ne va fatto un uso sapiente, non a caso, come con tutto. Le parolacce servono per rimarcare un pensiero, per dargli forza, per suscitare una risata, per far capire che sì, si scherza e no, non si sta involgarendo un concetto, ma lo si sta rendendo attuale, vero, tangibile.

Sì, perdi un filo di regalità a volte, ma dai, sarà meglio scrivere ‘cazzo’ piuttosto che ‘cxxxo’? Sarà che sono sempre stata acerrima nemica del ‘vorrei ma non posso’, che se voglio almeno ci provo e no, cxxxo non è provarci, è non volersi sporcare le mani.

Non dico che le parolacce debbano essere costanti e quotidiane, assolutamente NO, dico che l’essere volgare non è collegato all’uso di qualche intercalare colorito.

La volgarità è uno stato d’animo, è mancare di rispetto al prossimo, è la supponenza, il fottersene ampiamente di chiunque altro. Sì il fottersene, avete letto bene.

Certo, tiro acqua al mio mulino: io scrivo come parlo, come vivo, uso quotidianamente parole come lapalissiano, aplomb, espressioni come ça va sans dire, persino con Cip e Ciop, e dico cazzo e vaffanculo quando il contesto lo consente. Ok, a volte anche quando non dovrei, ma la perfezione non è di questo mondo e, se anche lo fosse, non apparterrebbe comunque a me. Tiè.

E poi, quando sei arrabbiato e hai voglia di spaccare il muro, a pugni o testate, ‘perdindirindina’ non ha lo stesso effetto calmante e liberatorio di un qualche epiteto ben più vigoroso.

Poi liberissimi tutti di disdegnare l’uso smodato del turpiloquio, ma da qui a mettere il veto su un ‘merda’ ogni tanto c’è un abisso.

Riesco a dare tutto il peso del mondo alla sintassi e alla grammatica e ad arrivare a trovare necessarie le parolacce per sottolineare un pensiero. Mio.

Senza esagerare, il troppo è sempre kitsch, un po’ di sale, giusto per insaporire un piatto già stellato di per sé. (Ho rispolverato l’ego).

Continuerò a scrivere senza filtri, sapendo esattamente dove voglio arrivare quando lo faccio e con la certezza che, per me, uniformarsi al gusto dei più è così démodé.

Come volevasi dimostrare.

Chissà se è il tempo o sono io.

Le mie notti sono infinite, le giornate troppo brevi. La gestione del tempo in questo periodo sta diventando particolarmente complicata. Strano visto che, a quanto si dice, il tempo ora pare estremamente dilatato.

E invece no. Per me il tempo è meno di prima.

Ma forse lo sto solo usando peggio.

Le giornate iniziano presto, si snodano tra mille cose da fare e troppi pensieri. La notte arriva quando non dovrebbe, quando la testa continua a lavorare. (‘Sta stronza).

Sì, io non so spegnere il cervello. Non ci riesco quando sono in vacanza, spaparanzata su qualche spiaggia lontano dalla civiltà, figurarsi se posso farlo ora, presa da mille pensieri, con molteplici dubbi e davanti all’incertezza del domani.

Che se sei maniaca del controllo un po’ la terra sotto i piedi la senti franare.

E non sono certa sia solo la mancanza della tanto sottovalutata routine quanto proprio il timore di mettere tutto in discussione. Soprattutto se stessi.

È il momento della resa dei conti.

E non ero pronta.

Non mi ero preparata.

Io che programmo sempre tutto tranne, naturalmente, l’imprevedibile.

E da marzo l’imprevedibile ha preso il sopravvento. E il tempo ha iniziato a scapparmi dalle mani. Troppo da fare, troppo a cui pensare.

Alla fine, forse, non sono le giornate a essere troppo corte ma i pensieri a essere troppo grandi.